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La (dura) linea di Trump e le buone volontà della Cina

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Secondo fonti del Washington Post, già nei prossimi giorni il governo americano potrebbe stringere ancora di più sulla Cina. Diverse agenzie statunitensi – dipartimenti come quello di Stato, Commercio, Tesoro, e in più l’intelligence – dovrebbero infatti alzare sanzioni e mandati di arresto contro hacker cinesi individuati come responsabili di furti di proprietà intellettuale e spionaggio industriale ai danni degli Stati Uniti.

Di più: gli americani dovrebbero, sempre stando alle informazioni del WaPo (di solito più che attendibili), declassificare dei documenti riservati risalenti al 2014, quando il controspionaggio cyber statunitense individuò un’ampia campagna di attacchi informatici contro strutture sensibili negli Stati Uniti. Per Washington i cinesi erano i responsabili, agendo – come gli hacker che intende incolpare – su incarico delle agenzie di intelligence governative, e dunque del governo di Pechino.

La condanna aperta americana alza di nuovo l’asticella del confronto in un momento delicatissimo. Da una parte misure del genere, che si sommano all’arresto ordinato dagli Usa al Canada della Cfo di Huawei, Meng Wanzhou, che ha fatto infuriare la Cina, la quale ha risposto in quella che sembra una rappresaglia arrestando un ex diplomatico canadese, Michael Kovrig – ieri il dipartimento di Stato americano ha chiesto ai cittadini statunitensi di aumentare il livello di attenzione nei loro viaggi in Cina perché potrebbero essere oggetto di ritorsioni. Dall’altra il dialogo sui temi commerciali.

Ieri, intervistato nello Studio Ovale dalla Reuters, il presidente americano, Donald Trumpha spiegato direttamente i collegamenti: ha detto che se dovesse ritenerlo necessario per la sicurezza nazionale interverrà con il dipartimento di Giustizia sul caso Meng (a cui ieri è stata accordata la libertà condizionata su cauzione, in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti richiesta dal DoJ per un’accusa di aver violato le sanzioni all’Iran). Trump ha detto che “se dovessi pensare che sarà positivo per quello che sarà sicuramente il più grande accordo commerciale mai fatto, che è una cosa molto importante, […] interverrei senz’altro”.

Ossia: l’arresto segue un ordine e un’accusa, ma può anche diventare un elemento di contrattazione – “È possibile che faccia parte dei negoziati”, ha detto il presidente – se Pechino accetterà condizioni e compromessi americani sul commercio. Attenzione: finora chi parlava dalla Casa Bianca ci ha tenuto a sottolineare che l’arresto di Meng e i negoziati commerciali erano due dossier separati, ma il presidente (come già accaduto più e più volte) ha smentito i suoi stessi funzionari. Qualcosa del genere è già successo mesi fa col caso dell’esclusione dal mercato Usa della compagnia delle telco cinese Zte.

Trump ha detto che i colloqui con la Cina stanno andando bene e procedono per il momento in forma telefonica, ma si prevedono incontri faccia a faccia fra funzionari di alto livello – è noto che il primo dovrebbe svolgersi a Washington tra qualche giorno, metà dicembre, al massimo la prossima settimana.

Gli Stati Uniti stanno cercando di portare a casa successi su vari fronti: innanzitutto la riduzione del deficit economico che soffrono con la Cina; “Ho appena saputo oggi che stanno acquistando enormi quantità di semi di soia”, ha detto Trump ieri, riferendosi all’acquisto di semi oleosi americani da parte cinese, interrotti qualche mese fa come misura di rappresaglia davanti ai dazi Made in Usa (attenzione, di nuovo: i piazzisti di materie prime di Chicago dicono alla Cnbc di non aver visto nessun segnale sugli aumenti di acquisti, almeno per il momento; potrebbe essere una sparata propagandistica per dare spinta politica alla fase negoziale, oppure una qualche anticipazione di ciò che arriverà).

Sul tavolo delle trattative c’è anche la questione dell’apertura al mercato cinese alle aziende americane, e pare che Pechino permetterà maggiore accesso rivedendo il piano Made in China 2025, quello con cui vorrebbe diventare indipendente sul fronte dell’hi-tech (dove invece finora è cliente statunitense per diversi sistemi secondari); quella del furto di proprietà intellettuale; e via via altre distanze da colmare. Un accordo “grande”, come lo chiama Trump, dovrebbe coprire la gran parte degli argomenti sul tavolo, con la clessidra dei 90 giorni di ultimatum dati dall’amministrazione Trump che corre inesorabilmente. La scadenza è al 1 marzo, nessuno osa pronunciarsi troppo su ciò che sarà, ma gli esperti, in forma confidenziale, lo considerano un tempo molto ristretto.

Che qualcosa, parallelamente allo scontro, si muove sui tavoli di confronto è comunque abbastanza evidente. Al di là delle dichiarazioni delle parti, per esempio, secondo le informazioni della Bloomberg la Cina ha fatto sapere durante una delle telefonate sotto le quali per ora procedono le trattative (“Conversazioni molto produttive”, come le chiama Trump), di essere intenzionata a valutare la riduzione dal 40 al 15 per cento delle tasse sull’importazioni delle auto prodotte negli Stati Uniti.

Trump dall’inizio del mese aveva già detto che Pechino avrebbe tagliato quelle tariffe (e dunque anche l’aumento dell’acquisto della soia può essere un’anticipazione del genere?); tariffe che sono state una misura di rappresaglia davanti ai dazi americani. La riduzione “immediata”, dicono fonti dei media americani, delle tariffe sulle automobili era considerata dal governo statunitense un segno che i negoziati avrebbero proceduto in buona fede.

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