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Cosa si cela dietro l’attacco aereo Usa in Somalia. Il messaggio politico

africa mafia

Sei attacchi aerei americani coordinati hanno ucciso 62 militanti del gruppo jihadista Shabaab in Somalia, una conferma che l’impegno statunitense contro il terrorismo viaggia sempre a pieno ritmo, ma non solo: un messaggio politico in un’area sensibile.

L’Africom, il comando del Pentagono che sovrintende le operazioni nel continente africano, spiega che gli attacchi sono stati effettuati il 15 e il 16 dicembre, contro quello che viene definito un “accampamento” nell’area di Gandarshe, sulla costa centro-meridionale somala, a sud di Mogadiscio.

Due attacchi hanno colpito i militanti, altri quattro le strutture senza vittime: il motivo dell’operazione, spiegano i militari americani, è evitare che i terroristi usino aree remote come fortini sicuri in cui reclutare, addestrarsi, e pianificare attacchi. È fondamentalmente questo il ruolo che hanno le azioni mirate statunitensi, che talvolta sono condotte anche attraverso raid di forze speciali su obiettivi di alto valore. L’obiettivo è evitare che fette di territorio finiscano completamente sotto il controllo degli Shabaab, un gruppo nato sotto l’ispirazione qaedista che dal 2015 ha iniziato a subire il fascino del Califfato baghdadista e per questo segnare defezioni e spaccature interne.

Distruggere i suoi centri logistici è la strategia adottata da Washington in collaborazione col governo somalo e con l’Onu (che in Somalia ha la missione Amisom, i cui ruoli stanno faticosamente passando a Mogadiscio). Ma la presenza americana, che aiuta le autorità locali a combattere la minaccia terroristica di un gruppo che vorrebbe trasformare il Paese in un emirato radicale islamico (pervaso da interessi di altro genere, criminali e nazionalistici per esempio), è anche un proxy politico.

Gli Stati Uniti intendono infatti usare l’aiuto sul fronte del counter-terrorism anche come via per non perdere il contatto con un paese che sta chiudendo accordi con la Cina (per esempio: i somali hanno concesso ai cinesi diritti sulla pesca nelle loro acque sovrane), in un’area molto delicata in cui Pechino sta spingendo la propria presenza: il Corno d’Africa. Pure questo è parte del confronto globale tra le due potenze.

L’area è fortemente strategica perché a nord, dove il Golfo di Aden si strozza sulla Penisola Araba, si chiude lo stretto di Bab al Mandab, in territorio dello Stato di Gibuti. E non è un caso se la Cina ha costruito la sua prima base extraterritoriale proprio a Gibuti, Paese che già ospita un’importante postazione americana (quella da cui decollano i droni armati che colpiscono sia in Africa sia nello Yemen).

Il 13 dicembre, quattro navi della 31esima Flotta dell’Esercito popolare cinese, con circa 700 marinai a bordo, sono partite dalla provincia meridionale di Guangdong dirette verso il Golfo di Aden, dove si muoveranno anche acque somale – secondo un accordo Pechino-Mogadiscio – per celebrare i dieci anni dall’inizio delle operazioni di sicurezza per navi civili su quel tratto di mare interessato da pirateria. Una missione operativa che marca una presenza politico-territoriale in un’area geografica tra le più importanti del pianeta, crocevia di passaggi commerciali.

 


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