Improvvisamente, dopo settimane di dichiarazioni sottotono sulla manovra del governo, la segretaria uscente della Cgil Susanna Camusso, anche a nome dei colleghi della Cisl e della Uil, ha affermato che se l’esecutivo non darà ascolto alle loro richieste, esso ricorrerà allo strumento della mobilitazione.
Le stesse organizzazioni sindacali nei giorni scorsi erano state ricevute dal presidente del Consiglio Conte a Palazzo Chigi per esporre i contenuti della loro piattaforma, ma l’esito del colloquio aveva evidenziato un carattere di pura cortesia della consultazione, come poi dimostrato proprio dalle dure dichiarazioni della segretaria della Cgil che ora minaccia il ricorso alla lotta se non vi sarà accoglimento almeno in parte delle proposte confederali.
Ma, a nostro avviso, è singolare che questa affermazione della Camusso giunga quando ormai le linee della manovra sono delineate nel dettaglio, anche se nel momento in cui scriviamo non si conosce ancora l’articolato testuale del maxiemendamento del governo da presentarsi ad horas al Senato.
Come interpretare allora le parole della leader della Cgil? Come una dichiarazione a futura memoria? O finalmente ci si è accorti ai piani alti delle confederazioni sindacali – ma anche sui territori – che la prima manovra del governo gialloverde rischia di essere un’occasione mancata per la crescita del Paese che, anzi, corre il pericolo di subire un nuovo rallentamento già segnalato dall’Istat che potrebbe sfociare nel 2019 in piena recessione?
Le due misure “bandiera” su reddito di cittadinanza e quota 100 – di cui pure bisognerà verificare la concreta declinazione attuativa – basterebbero da sole a coprire agli occhi dei sindacati la debolezza complessiva della manovra sui nodi dello sviluppo dell’Italia? È presumibile (ed auspicabile) allora che si stiano interrogando i vertici confederali su questo punto specifico e dirimente.
E se alla fine la risposta sulla bontà della legge di Bilancio fosse negativa, non si dovrebbe impostare (finalmente) una contromanovra precisa nei suoi contenuti rivendicativi, con ben definite priorità e dettagliati cronoprogrammi per raggiungerle, capace di individuare le risorse con cui conseguire gli obiettivi individuati?
E in tal caso non sarebbe utile incontrarsi anche con tutte le associazioni datoriali – che nelle ultime settimane in piazza e in ogni dove hanno espresso critiche a volte veementi al governo – per giungere alla definizione di un’unica piattaforma per la crescita dell’Italia e che sia presentabile come una sorta di Magna Charta del Paese che produce, lavora e compete, in grado di imporre entro pochi mesi una manovra correttiva all’esecutivo in direzione dello sviluppo e dell’occupazione?
Insomma, non si potrebbe tornare a far sentire, come si era incominciato con il Patto della fabbrica, al governo e al Parlamento la voce forte e qualificata dell’intero mondo della produzione nazionale che non ne può più di improvvisazioni ministeriali dilettantistiche, di stentoree dichiarazioni antieuropeiste, subito contraddette dai fatti, di felpe onnipresenti, e di proclami diluviali su Facebook che hanno già stancato coloro che ogni giorno invece devono guidare l’industria italiana nel mare gelido ed agitato dei mercati mondiali?