Pubblichiamo la prima parte di una analisi sulle conseguenze della Brexit. La seconda parte verrà pubblicata domenica.
Il referendum con il quale il 23 giugno 2016 i cittadini britannici hanno scelto di abbandonare l’Unione europea ha sollevato questioni politiche ed economiche di rilevanza primaria. Va rilevato come questa sia stata la prima volta in cui uno Stato abbia fatto ricorso all’art. 50 del Trattato sull’Ue per abbandonare l’Unione. L’Unione europea, che sin dalla sua costituzione era sempre stata un club molto attrattivo, si è trovata ad affrontare un fatto nuovo e fino a quel momento inaspettato. Questo necessita di alcune riflessioni.
In primo luogo bisogna interrogarsi sui motivi che hanno portato a questa inversione di tendenza. Già nel 1975 si tenne nel Regno Unito un referendum sulla permanenza nell’Unione europea a seguito della firma del Trattato di adesione del gennaio 1972. In un contesto generale certamente diverso, le analogie tra il referendum del 1975 e quello del 2016 sono state molteplici. In entrambi i casi il voto è stato fortemente influenzato dagli effetti di una profonda crisi economica: la crisi petrolifera nel 1975, la crisi finanziaria nel 2016. In entrambi i casi si è dibattuto sul ruolo da protagonista del Regno Unito nel mondo anche al di fuori dell’Europa. In entrambi i casi ci sono state posizioni diversificate sia nel Labour che tra i Tories. Eppure i risultati furono diversi.
Nel 1975 il 63% dei cittadini britannici scelse di restare in Europa. E questa scelta non fu netta solo nella città di Londra, ma la vittoria della scelta europea fu ampia in ogni parte del Regno Unito. Una chiara differenza tra i due voti consiste nel fatto che nel 1975 la campagna pro Unione europea fu caratterizzata da un forte idealismo. La scelta a favore dell’adesione all’Unione europea non era motivata solo da fattori economici o istituzionali, ma era presentata come una scelta per la pace, per un ideale di collaborazione pacifica e una promessa di sviluppo rappresentate dall’Unione europea. E sono state questa tensione ideale e questa fiducia a mancare nella campagna referendaria del 2016. È questa una riflessione da tener presente in un’ottica di rilancio del processo di integrazione europea.
Si apre poi una questione sul ruolo geopolitico dell’Unione europea in un contesto storico caratterizzato dalla multipolarità e dalle geometrie variabili, in cui gli Usa con l’amministrazione Trump stanno giocando un importante ruolo di driver dei processi politici ed economici internazionali, così come un ruolo importante è giocato dalla Cina e dal suo progetto economico e geopolitico lanciato da Xi Jinping, la Belt and Road Initiative, senza inoltre dimenticare il ruolo della Russia di Putin.
Bisognerà pertanto verificare quanto la Ue, che rappresenta uno dei vertici di questo equilibrio multipolare, potrà risultare indebolita sullo scacchiere internazionale dall’uscita del Regno Unito. Senza dimenticare che l’uscita di Londra determinerebbe necessariamente un mutamento dei rapporti interni all’Unione con il venire meno di un contrappeso alla rilevanza di Berlino, proprio in un momento in cui nell’Ue è in corso una riflessione su alcuni dei propri meccanismi di funzionamento, ad esempio per quanto attiene all’Unione bancaria, all’Unione di bilancio o alla Difesa comune.
Allo stesso tempo bisognerà valutare come cambierà il ruolo del Regno Unito al di fuori della Ue. Secondo alcuni autorevoli analisti, lo stesso percorso che ha portato a Brexit non è stato casuale ma sarebbe stato sostenuto da una precisa strategia messa a punto da ambienti “euroscettici”, ben inseriti nelle istituzioni britanniche e insofferenti verso un’Unione europea percepita a trazione tedesca, e gli Hedge Funds inglesi preoccupati dagli effetti del surplus commerciale tedesco sulla bilancia commerciale dell’eurozona. Una strategia avente l’intento di slegare il Regno Unito dai vincoli europei per riposizionare l’economia britannica in maniera autonoma nei rapporti con la Cina e il mondo arabo. In quest’ottica andrebbero quindi considerate le relazioni avviate con Pechino al fine di inserire il Regno Unito sulla nuova via della seta, così come l’ingresso della valuta cinese, il Renminbi, tra le valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale grazie ad un’intesa intercorsa sulla piazza finanziaria della City. E sempre in quest’ottica andrebbero considerate le attività diplomatiche riguardanti l’Aramco, la compagnia petrolifera di bandiera dell’Arabia Saudita, che avrebbe dovuto essere privatizzata nel 2019, che è proprio la data termine prevista per Brexit.
Obiettivo finale di questa strategia sarebbe quello di fare di Londra la Singapore dell’Atlantico, una sorta di zona franca dalla quale far transitare una sempre più ingente quantità di investimenti, perseguendo la strategia “Global Britain”. Potrà realmente il Regno Unito giocare un ruolo autonomo sullo scacchiere internazionale? Molto dipenderà dai risvolti economici di Brexit.