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Vi porto nel bunker antiatomico di Mussolini, Saragat, Moro e Andreotti

mussolini

Alle porte di Roma quattro km di gallerie sotterranee scavate a 300 m di profondità ospitavano la War Room italiana in caso di “devastazione generalizzata” o di guerra nucleare globale.

Gli ingegneri ed i geologi di Mussolini scelsero il Monte Soratte, un massiccio calcareo alto 671 m che sorge come un’isola sopra la piana del Tevere. Qui, tre millenni prima, i sacerdoti Hirpi Soprani avevano venerato Apollo in forma di lupo. Era un colle coperto di boschi e ricco di voragini e grotte carsiche, “i Meri”, che ogni tanto inghiottivano qualcuno alimentando miti e leggende.

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Sotto la direzione del genio militare di Roma, nel 1937 iniziarono i segreti lavori di scavo – a colpi di piccone e di mina – per realizzare un enorme rifugio antiaereo destinato ad ospitare il governo e le massime autorità fasciste in caso di bombardamenti a tappeto. Per sviare l’attenzione dei curiosi, si sparse la voce che era in costruzione una fabbrica di armi della Breda: le “Officine protette del Duce”, ma nel calcare stava prendendo forma una città sotterranea che tuttora rappresenta una delle più imponenti opere di ingegneria militare d’Europa.

Il genio militare italiano fu messo a dura prova dal resistente calcare del Triassico. Ma l’italica caparbietà – affinata dalle battaglie di “mina e contromina” nelle trincee e nei tunnel sotterranei della Grande Guerra sotto il carso triestino – ebbe infine la meglio.

Ne risultò una rete di gallerie, rinforzate da pareti spesse fino a due metri in cemento armato e dotate di numerose vie di fuga verso l’esterno, porte blindate e pompe con filtri antigas e circuiti di rigenerazione dell’aria. Erano in grado di ospitare tutti i vertici politici e militari, lo stato maggiore, i tecnici necessari a trasformare quelle caverne artificiali in una sala comando supersicura che faceva impallidire i due bunker ufficiali: quelli sotto il laghetto del Fucino e sotto il casino Nobile a Villa Torlonia, la residenza del Duce.

Con l’armistizio del ’43, solo 4 dei 14 km previsti erano già stati ultimati. Ma il feldmaresciallo Kesselring, comandante delle forze di occupazione naziste dall’8 settembre del 1943, approfittò di ciò che Mussolini non aveva mai potuto utilizzare e piazzò proprio lì il quartier generale del Comando Generale del Sud trasferendolo da Frascati.

Il 12 maggio del ’44, due stormi di B-17 americani partiti da Foggia attaccarono il comando e la rete di bunker con un bombardamento a tappeto tipo “tempesta di fuoco” – come quello che distrusse completamente Dresda – ma il bunker sopravvisse e solo alcune settimane dopo Kesselring fu stanato e costretto a scappare verso nord.

Nella fuga, Kesselring ordinò di minare e bruciare tutto il complesso sotterraneo, ma risultarono distrutti solo gli accessi. Si dice che l’obiettivo non fosse solo quello di eliminare un’opera militare per non consegnarla al nemico, ma anche di sigillarvi dentro, in attesa di tempi migliori, parte del tesoro della Banca d’Italia: numerose casse contenenti 72 tonnellate di lingotti oro, che non sono mai stati ritrovati.

Dopo la guerra, il servizio segreto militare italiano (il SIFAR) si mise a caccia dell’oro. A quel tempo il direttore era il generale Giovanni De Lorenzo. Proprio lui ideò il “Piano Solo”, il fallito colpo di Stato attuato nel giugno del 1964 durante la crisi del primo governo Moro. Davanti ai giudici, De Lorenzo ammise di aver condotto le operazioni di ricerca del tesoro nel bunker sfruttando manodopera del vicino paese di Sant’Oreste, ma – sempre secondo la sua testimonianza – con scarsi successi. Solo pochi anni fa è stato tolto il segreto di Stato agli atti processuali, ma ancora in forma incompleta. Rimangono secretate la vicenda del bunker e numerose altre, amplificando i forti sospetti che il colpo di Stato fosse stato tentato con la complicità del presidente della Repubblica Antonio Segni. Ma questa è un’altra storia.

Poi, il bunker venne impiegato come polveriera vigilata dai Granatieri di Sardegna e le sue antiche glorie sarebbero state dimenticate se nel 1963, l’inasprirsi della guerra fredda non avesse spinto il governo Moro I – sempre con Antonio Segni al Quirinale – ad accettare le raccomandazioni della Nato ed a studiare come trasformare l’antico labirinto sotterraneo in una base militare a prova di guerra termonucleare globale.

Naturalmente, lo smantellamento della polveriera e la realizzazione del quartier generale vennero tenuti segreti. Nei mesi precedenti si verificarono, infatti, curiosi “incidenti” nei pressi degli ingressi. Le cause sono tutt’ora ignote ma si parlò di “sovversivi” che tentavano di fare saltare la struttura o di depredare il deposito di armi. Questo pretesto permise di dichiarare la struttura inidonea, trasferire la polveriera in una area meno vulnerabile agli assalti dei “sovversivi” e coprire, così, i lavori di ammodernamento.

I lavori ripresero con tecnologie di scavo molto più moderne, e le gallerie vennero attrezzate come una vera e propria war room: un comando militare completo in grado di ospitare i vertici politici e militari, lo stato maggiore e i tecnici destinato alla gestione della rete di comando, controllo, comunicazione ed intelligence della Repubblica Italiana.

L’opera venne avviata nel 1967 – sotto il governo Moro III e la presidenza di Giuseppe Saragat – ed ultimata nel 1972 – sotto i primi due governi Andreotti e all’inizio della presidenza di Giovanni Leone. Il quartier generale supersegreto occupava 1300 metri lineari di gallerie nel cuore delle caverne artificiali, era distribuito su tre piani per 35.000 metri cubi a una profondità compresa fra 250 e 315 metri di solida roccia. Gli accessi vennero protetti con porte antiesplosione in cemento e acciaio balistico Armox di 4,2 tonnellate inserite in infissi di oltre 25 tonnellate. Le gallerie blindate mussoliniane vennero rinforzate con una ulteriore camicia di cemento armato spessa 60 cm.

Su suggerimento della Nato, all’interno di quest’ultima venne inserito uno strato flessibile di polietilene borato, un materiale in grado di schermare i neutroni ad alta energia prodotti da una esplosione nucleare. Le porte antiesplosione erano rinforzate da diaframmi di cemento armato di spessore compreso fra 10 e 20 metri. Fu una delle prime volte al mondo che una struttura antiatomica fu dotata di un sistema di oltre 2500 isolatori sismici in acciaio e neoprene. Questi avrebbero garantito la dissipazione dell’energia del terremoto prodotto da una esplosione nucleare di prossimità, lasciando le gallerie libere di oscillare senza danneggiare gli interni.

Oltre ai 150 tecnici e militari, nella città sotterranea c’era posto per ospitare altri 150 politici. Sarebbe interessante scoprire con che criterio questi furono selezionati per essere immediatamente recuperati e introdotti nel bunker in caso di conflitto mondiale. Molto probabilmente i 28 ministri del governo Andreotti II vi avrebbero trovato spazio. E probabilmente c’era posto anche per buona parte dei 61 sottosegretari, arrivando a coprire 89 dei posti disponibili.

Ma poche probabilità di scampo avrebbe avuto la maggior parte dei 162 senatori e 334 deputati della maggioranza, per non parlare del resto dei 153 più 296 parlamentari dell’opposizione, compresi i pericolosi comunisti.

Al Presidente della Repubblica – capo supremo delle forze armate – era riservata una stanzetta e un letto a castello da spartire con la fortunata moglie (unica consorte ammessa), ma niente spazio per eventuali figli. Saragat, però, rimase vedovo prima di salire al Quirinale, affidando il ruolo di first lady alla figlia Ernestina. Questa probabilmente avrebbe avuto di diritto la cuccetta superiore del letto a castello, con buona pace di suo marito, il dentista Santacatterina, che se la sarebbe dovuta cavare da solo. Leone avrebbe potuto spartire la first room con la moglie Vittoria Michitto, la stessa colpita dai falsi dossier sulla sua vita privata messi in giro dal Generale De Lorenzo per screditare il marito. Nessuno spazio, però, per i figli Mauro, Paolo e Giancarlo.

La war room sotterranea fu certamente sede di alcune esercitazioni Nato tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80. Per le decine di radar e i 18 metri di mappe del bunker sono passati tutti i guai di quegli anni: la crisi dei missili di Cuba, gli scontri USA-Libia, la strage di Ustica, il sequestro dell’Achille Lauro e il confronto di Sigonella. Ma probabilmente da lì sono stati seguiti il tentato colpo di Stato di Junio Valerio Borghese nel ‘70, il golpe bianco di Edgardo Sogno del ‘74 e forse anche quello preannunciato dalle bombe di mafia del ‘93. La base rimase pienamente attiva fino alla caduta del muro di Berlino, ma cessò di rivestire un significato strategico col collasso dell’Unione Sovietica.

Tra il 1993 ed il 2003, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ipotizzò la trasformazione del bunker in una unità C3-ISTAR, sempre in ambito Nato, prima del definitivo abbandono nel 2008. Da allora, la guerra fredda è tornata di moda, e aumenta la frequenza degli incidenti che potrebbero scatenare un conflitto nucleare. Ma il bunker sotto il Monte Soratte è ormai obsoleto ed è recentemente stato trasformato in un museo. Non sappiamo quanto sia costata questa “situation room” degna di un film apocalittico, ma nasce spontaneo qualche dubbio su quale sarebbe stata la sua effettiva efficacia.

Prima di tutto, le uscite del bunker erano quasi tutte a Sud, proprio in direzione di Roma, affacciate a 100 m di altezza sopra la bassa valle circostante. Avrebbero ricevuto in pieno l’onda d’urto di una bomba termonucleare lanciata sulla capitale, ad esempio una 8F115 sovietica da 5 Megaton lanciata con un missile balistico R-16 dell’epoca. Poi, il bunker dista almeno un’ora di auto da Palazzo Chigi, sempre confidando che il corteo presidenziale riuscisse efficacemente a farsi strada lungo l’affollata via Flaminia. Gli elicotteri avrebbero coperto più rapidamente i 40 km di distanza; semmai – escludendo il recupero di presidente e ministri col verricello – avrebbero avuto qualche problema a decollare accanto alla colonna di Marco Aurelio.

Infine, sarebbe interessante capire cosa avrebbero potuto fare i vertici politici e militari italiani in caso di conflitto nucleare. Probabilmente nei pochi minuti disponibili fra l’individuazione dei missili in arrivo – cosa tutt’altro che semplice – e la loro esplosione (sempre se tutto il governo si fosse già fatto trovare seduto composto nella war room) ci sarebbe stato modo di ordinare il decollo di qualche caccia o di autorizzare (formalmente) gli americani a utilizzare le nostre basi militari.

L’autonomia prevista per questa città sotterranea rimane misteriosa. Certamente c’erano ampi magazzini di acqua e viveri ed i sistemi di filtraggio, purificazione e ripristino dell’aria potevano funzionare sia con la rete elettrica che con una serie di gruppi elettrogeni diesel, a batteria e – ultima spiaggia – anche a manovella.
Se tutto avesse funzionato correttamente, e se i nostri fossero riusciti a sopravvivere per alcuni mesi al termine della guerra termonucleare globale, aprendo le porte del bunker si sarebbero trovati di fronte ad una piana del Tevere completamente devastata, altamente radioattiva e deserta di ogni forma di vita superiore. A parte questo, i militari, Andreotti e i suoi ministri si sarebbero trovati in serie difficoltà nel rigenerare la stirpe italica: erano tutti uomini.

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