Il Movimento 5 Stelle ha avuto la capacità di esprimere una parte del disagio sociale e di canalizzarlo in forme politiche. Co-protagonista del populismo all’italiana, è stato premiato dagli elettori ed è giunto al governo della nazione. A quel punto aveva la possibilità di elaborare una proposta politica tesa a rispondere alle diverse istanze che provengono dalle realtà socioeconomiche italiane, nell’ambito di una ponderata e responsabile mediazione. Non lo ha fatto, per scelta o per incapacità, e ha contribuito ad elaborare una politica di governo condizionata da logiche di parte, per molti versi contraddittoria, non priva di misure punitive contro soggetti ritenuti nemici, senza l’annunciata riduzione della pressione fiscale, permeata di assistenzialismo e redistribuzione recessiva, disattenta ai fondamentali dell’economia, incerta sulle grandi opere, velleitariamente conflittuale con l’Europa.
A fronte della consistente perdita di consensi, il Movimento non ha tentato di capire dove sbagliava e ha reagito tornando in trincea, cercando di replicare la narrazione che lo ha portato al potere: quella del vaffa al ceto dominante, dell’improvvisazione al governo, del cambiamento contro la restaurazione.
Allora ha richiamato al servizio attivo il barricadero Di Battista. Ha ricominciato ad alimentare un populismo arrabbiato e rancoroso, nutrito di lotta alla casta, ai poteri forti, ai burocrati, ai professionisti della politica, ai tecnici, ai giornalisti critici e a quanti non si allineano al pensiero grillino. Un populismo veicolato da un linguaggio aggressivo e da una comunicazione centrata sul rapporto telematico uno a uno, priva di mediazioni culturali ed esposta a strumentalizzazioni e manipolazioni. Un populismo conflittuale che poteva aver senso nella fase antagonista del Movimento, non in quella di governo. E di fronte ai dissensi interni non ha neanche provato ad aprire un dibattito, disponendo l’espulsione di quanti non allineati alla dirigenza del Movimento, manifestando palesi idiosincrasie democratiche.
In sostanza, il Movimento, nonostante sia a Palazzo Chigi, continua a comportarsi come un soggetto rivoluzionario allo stato nascente, controllato da un’elite autoreferenziale, preoccupata di preservare il consenso indicando nemici da combattere. E ora, il progressivo avvicinarsi delle elezioni europee inevitabilmente accentua gli aspetti estremistici: il Movimento, privo di un progetto politico che vada oltre il reddito di cittadinanza, ricomincia a parlare di tagli alla “casta”, riaccende la rabbia sociale e concentra l’azione politica sul conflitto tra ceti e gruppi, incapace o non disposto ad elaborare una proposta politica di mediazione tra le diverse istanze del Paese. Lo scopo è compattare il fronte interno; l’effetto è lo svilimento dell’azione di governo e l’indebolimento della coesione sociale.
Tutto questo, in una difficile fase di transizione per l’Italia, dopo una crisi economica che ha ampliato l’area del disagio e ha lasciato la nazione con un grande debito pubblico, infrastrutture da rinnovare, crescita economica da stimolare, giovani da non costringere ad espatriare, pressione fiscale da ridurre, disoccupati da aiutare a trovare lavoro, pubblica amministrazione da ammodernare: una situazione molto seria, che il Movimento non sembra in grado di gestire con competenza, responsabilità, equilibrio e consapevolezza dei fondamentali del diritto e dell’economia, delle responsabilità di governo, degli interessi della nazione nel suo complesso.
Molte forze politiche e sociali si sono rese conto dei limiti di pensiero e di azione dei Cinque Stelle e hanno assunto conseguenti posizioni. Fino a quando la Lega, in nome di una malintesa solidarietà populista e di un discutibile calcolo politico, continuerà a non voler vedere la realtà del proprio alleato di governo, anche a costo di accompagnare il Paese verso la recessione e la rottura del patto sociale?