Qualcosa si è messo in moto a Genova, qualcosa di non ancora ben definito di cui ben presto si conoscerà la natura. Ci sono però almeno due certezze nella lunga crisi di Carige (qui un focus di Formiche.net), la cassa di risparmio genovese, finita nell’imbuto del commissariamento dopo l’intervento della Bce. La vicenda è nota ma vale la pena riassumerla brevemente.
L’azionista forte, la famiglia Malacalza, ha negato l’assenso all’aumento da 400 milioni, lo scorso 22 dicembre, che avrebbe dovuto mettere in sicurezza una volta per tutte la banca ligure. I risultati non si sono fatti attendere: titolo crollato, capitalizzazione ancora ridotta e tagliola della Consob scattata sulle azioni, sospese dagli scambi. Poi, l’intervento a gamba tesa di Francoforte che ha cambiato le carte in tavola. Tre commissari, tra cui il presidente Carige Pietro Modiano, chiamati a prendere le redini di una banca barcollante da troppi anni.
Non è facile capire che cosa succederà nelle prossime settimane. Il temuto bail-in, la risoluzione coatta da scaricare su azionisti, correntisti e titolari di obbligazioni, appare lontano. Di sicuro però la vicenda Carige porta in dote due riflessioni. Primo, al netto delle rassicurazioni del vicepremier Luigi Di Maio (“seguiamo la vicenda ma non siamo preoccupati”), il governo con ogni probabilità non metterà soldi in Carige. E questo per due ragioni, essenzialmente.
Innanzitutto l’Europa, con cui l’Italia ha appena chiuso sul filo di lana un accordo politico sulla manovra (ma Bruxelles vigilerà almeno fino a marzo sugli effetti della legge di Bilancio) e che non ha mai gradito interventi pubblici in crisi bancarie. La stessa vicenda Mps, nazionalizzata tre anni or sono per evitarne il crack e oggi in mano al Tesoro con quasi il 70%, non è mai stata digerita a Bruxelles. Non è finita.
Ad oggi l’ingresso dello Stato in Mps non si sta rivelando ancora un buon affare. Certo, Rocca Salimbeni sta continuando la pulizia dei bilanci, cedendo robusti stock di sofferenze, ma negli ultimi mesi il titolo Mps ha perso molto del suo valore in Borsa. Già la scorsa primavera la banca più antica del mondo valeva il 28% in meno in Borsa, con una perdita teorica per lo Stato azionista vicina ai 3 miliardi. Rosso salito fino a quasi 5 miliardi e mezzo a ottobre, secondo alcuni calcoli del Sole 24 Ore anche per colpa, va detto, dello spread a 300 punti base. Se si considera che lo Stato in Mps ha investito più o meno 6,9 miliardi, di cui oltre 5 bruciati, è naturale porsi qualche domanda anche su Carige.
Potrà mai il governo Conte investire in una banca che oggi vale in Borsa poco meno di 100 milioni di euro, un quinto del valore dell’aumento da mezzo miliardo di fine 2017 e un quarto di quello teorico da 400 milioni, sfumato prima di Natale? Di più. A novembre, per reperire la liquidità necessaria con cui rafforzare il patrimonio, Carige ha emesso un bond da 320 milioni, con la regia del Fondo Interbancario (costituito da tutti gli istituti italiani che vi intendono partecipare dunque su base volontaria). Ora senza l’aumento da 400 milioni, come fronteggiare la restituzione del denaro prestato dal mercato?
La seconda riflessione porta dritta a Francoforte. Negli anni passati la vigilanza bancaria, domestica con Bankitalia, europea con la Bce, è stata più volte tacciata di scarsa prontezza di riflessi. Stavolta non è andata così. In dieci giorni (l’assemblea per l’ok all’aumento con l’astensione dei Malacalza si è tenuta il 22 dicembre) la Bce ha dapprima incontrato i vertici della banca, per poi aumentare il pressing sul board fino alle sue dimissioni. Poi, nel giro di poche ore e di raccordo con Bankitalia, il commissariamento a tempo di record. Non sempre è andata così, per esempio, con altre banche, dove la vendita di obbligazioni legate alla salute dell’istituto non era stata fermata per tempo.
Il caso Carige, decimo istituto italiano e dunque sotto il diretto controllo della Bce, ha dunque fornito la prova della svolta nella vigilanza europea, veloce ed efficace come non mai. La pazienza a Francoforte è insomma finita, soprattutto nei casi di crisi frutto dei disaccordi tra azionisti e amministratori. Come Carige.