“I like her. Can you believe it? I like Nancy Pelosi. I mean, she’s tough and she’s smart.” Questo commento di Donald Trump dice molte cose sul complesso mondo di Washington, sulle sfide politiche che attendono gli Stati Uniti nei prossimi anni e sull’avvio della campagna elettorale 2020 che sarà senza ombra di dubbio una delle più interessanti di sempre.
Il Presidente ha di fronte una seconda parte del mandato tanto potenzialmente straordinaria quanto pericolosa e difficile da gestire. Da un lato può sbandierare con orgoglio i dati economici americani (che sono postivi oltre ogni ragionevole dubbio), vero banco di prova della sua amministrazione ispirata da un semplice e poderoso concetto: “Make America Great Again”.
Dall’altro però ha gatte da pelare di non poco conto. Gestione dello staff nella West Wing della Casa Bianca confusa e contraddittoria; perdurante minaccia dell’inchiesta del procuratore speciale Mueller sul RussiaGate; battaglia commerciale con la Cina dall’esito incerto (basti pensare a quanto accaduto ad Apple negli ultimi giorni); costruzione del muro al confine con il Messico che è, ad un tempo, bandiera della sua amministrazione e fortissimo motivo di attrito con i democratici; ritiro delle truppe Usa da Siria e Afghanistan che il Presidente vuole ma che i militari sconsigliano (da qui la dimissioni anticipate del Segretario di Stato alla Difesa James Mattis, il mitico Mad Dog, generale a quattro stelle dei Marines): i temi delicati sul tavolo nello Studio Ovale non mancano e, se possibile, cresceranno nei prossimi mesi, anche perché la perdita della maggioranza al Congresso renderà la vita più difficile all’intera amministrazione.
In questo quadro si inserisce il ritorno di Nancy Pelosi nella funzione di Speaker della Camera Bassa, ruolo già ricoperto per quattro anni sul finire del secondo mandato di George W Bush e all’inizio del primo mandato di Obama, condizione che fa di lei oggi la donna più importante d’America (almeno per quanto riguarda la politica), essendo ormai scontato il declino di Hillary Clinton.
Quindi sarà proprio nel rapporto tra Pelosi e Trump che si giocheranno molte partite dei prossimi due anni, anche se nessuno può dare per certa la candidatura di Nancy per il 2020 (anche in considerazione del fatto che proprio in quella data compirà ottant’anni).
Un assaggio c’è stato proprio nell’ultime ore, con queste parole indirizzate da Pelosi verso la Casa Bianca: “Non mi illudo che sarà un compito facile. Ma l’importante è rispettarci l’uno con l’altro e soprattutto rispettare la verità”. Parole di grande correttezza istituzionale ma che dicono anche (forte e chiaro) che non saranno fatti sconti di nessun genere.
Tutto questo però riguarda anche noi, che siamo (e vogliamo restare) amici degli Stati Uniti di primo livello.
Ci riguarda perché Nancy Pelosi è figlia di genitori italoamericani (Annunziata Lombardi e Thomas D’Alessandro, mentre il nonno materno, Nicola Lombardi, era originario di Fornelli, in provincia di Isernia e il nonno paterno, Tommaso G. D’Alessandro, arrivava dalla provincia di Chieti) e ci riguarda perché i rapporti dell’Italia con gli Stati Uniti non sono legati a questa o quella amministrazione, a questo o quel Presidente.
Da questo punto di vista è stupida ogni polemica sul ricevimento di poche sere fa a Villa Firenze (residenza dell’ambasciatore italiano a Washington) cui ha partecipato proprio Pelosi alla vigilia della sua elezione.
Gli eccellenti rapporti tra il governo italiano (Conte in testa) e la Casa Bianca sono sotto gli occhi di tutti e sono testimoniati da molteplici accadimenti.
Tutto ciò però non deve significare relazioni a senso unico, men che meno in momenti di potenziale transizione (i democratici sono tornati maggioranza al Congresso) e comunque non cercando di leggere le vicende americano con occhio italiano, perché a Washington le alleanze e le rivalità sono spesso assai più trasversali di quanto possa apparire usando la semplicistica divisione tra repubblicani e democratici (non a caso sono tutti Gop i più feroci critici di Trump, dal compianto McCain a Mitt Romney).
Insomma l’Italia fa bene a difendere la sua centralità nella difficile piazza della capitale federale a stelle e strisce, tanto a Villa Firenze quanto al Caffè Milano (il locale preferito dalla famiglia Obama e da gran parte della comunità che conta).
Giochiamo con intelligenza la nostra partita a difesa dell’interesse nazionale, senza cadere in meschini provincialismi: prima o poi se ne paga il prezzo altissimo. Ci ragionino su un po’ tutti, soprattutto dalle parti della Lega: conviene innanzitutto a loro.