Tra gli statisti della seconda metà del Ventesimo secolo Ronald Reagan risplende di una luce più luminosa rispetto a tutti gli altri (ben pochi, a dire la verità). Forse soltanto Charles De Gaulle, François Mitterrand e Margaret Thatcher possono essergli paragonati per intelligenza politica e concreta realizzazione degli obiettivi. Ma Reagan, a differenza di questi autentici giganti, aveva un carisma naturale che si manifestò ben prima di diventare quarantesimo presidente degli Stati Uniti.
Carisma che pose a fondamento di una vasta opera di ricomposizione dell’Occidente ancora minacciato dall’Impero del Male – sua la definizione – che in otto anni contribuì in maniera decisiva a demolire dalle fondamenta, complice la profonda crisi endogena del sovietismo giunto alla sua fine naturale per l’esaurirsi della famosa “spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”. Ma quella fine quanto sarebbe durata, e quali strascichi avrebbe prodotto se l’azione politica e diplomatica reaganiana non si fosse manifestata con la potenza di una autentica visione del post-comunismo da riempire di contenuti socio-culturali su cui fondare una nuova idea della comunità euro-atlantica?
È un interrogativo che ancora oggi ci poniamo e al quale non c’è risposta, ma una ipotesi la si può azzardare visto quel che è accaduto nel mondo dopo il tramonto degli effetti della leadership reaganiana. Il disordine mondiale avrebbe, probabilmente, dispiegato in maniera più violenta e forse tragica l’apparizione di figure inquietanti sullo scenario mondiale e la guerra asimmetrica di matrice terroristica avrebbe con quasi certamente riempito il vuoto del comunismo sovietico nel cui universo sconnesso i nazionalismi egemonizzati dall’islamismo e sostenuti da potenze regionali come l’Iran avrebbero lanciato un sfida micidiale all’Occidente dalle conseguenze catastrofiche.
La preveggenza di Reagan assecondò il disfacimento dell’impero sovietico, mettendo nel contempo un freno al revanscismo dello stesso con l’accordo sui missili. E impedì il tentativo di esportazione della rivoluzione komeinista (avvenuta nel febbraio 1979, un anno prima dell’elezione ) da parte degli ayatollah, il primo effetto dirompente fu la presa in ostaggio di cinquantadue membri dell’ambasciata americana a Teheran che simboleggiò la debolezza degli Usa nell’immaginario orientale dove l’ostilità crescente antiamericana si nutriva del mito di un Islam senza confini.
Quando Reagan, nel 1988, lasciò la Casa Bianca il mondo non era ancora ordinato come l’anziano presidente immagina che dovesse essere, ma pochi mesi dopo il Muro di Berlino sarebbe crollato e la minaccia islamica, per il momento, era stata scongiurata. Il dopo-Reagan, comunque, si annunciava gravido di incognite perché il presidente conservatore non lasciava eredi degni della sua politica e capaci di tradurre visioni complesse in politiche comprensibili.
Aveva il senso del limite e quella che a qualcuno si palesava come tracotanza, era un’arma efficace e proporzionata allo scopo. Sembrò un azzardo l’appello lanciato da Reagan a Mikhail Gorbaciov davanti alla Porta di Brandeburgo, a Berlino, icona drammatica della divisione dell’Europa cui pure gli americani avevano contribuito, il 12 giugno 1987, ma fu il primo atto che preludeva alla resa incondizionata: “Segretario generale Gorbaciov, se lei cerca la pace, se cerca prosperità, se cerca liberalizzazione per l’Unione Sovietica e l’Europa dell’est: venga a questa porta. Signor Gorbaciov, apra questa porta. Signor Gorbaciov, signor Gorbaciov, abbatta questo muro!”.
Ed il Muro, il 9 novembre 1989, nella notte più pazza, euforica e inebriante che Berlino abbia vissuto, cadde, rovinosamente e spettacolarmente. The Wall diventò una grande opera rock firmata da Roger Water dei Pink Floyd che dopo Mistislav Rostropovich, con il suo gioioso violoncello, riassunsero nel solo modo possibile, utilizzando cioè il linguaggio universale della musica, l’evento della liberazione per eccellenza, mentre il secolo delle “idee assassine”, secondo la felice definizione di Robert Conquest, s’avviava al tramonto. Pochi pensarono in seguito a quel vecchio cow boys che aveva reso possibile il “miracolo” sotto il cielo di Berlino.
Qualcuno dei centottantamila presenti al concerto di Water davanti a quel che rimaneva del Muro, il 21 luglio 1990, gli rese silenziosamente omaggio ricordando l’appello acuto e pieno di speranza al “signor Gorbaciov” di tre anni prima. A Reagan, subito dopo la sua uscita di scena, si riferirono in molti. Poi il silenzio è sceso inesorabile sulla sua memoria. Paradossalmente anche dagli ambienti conservatori è stato quasi dimenticato. Dobbiamo a Barack Obama, L’ inaspettato postumo omaggio, dopo presidenze discutibili, e talune addirittura non commendevoli: “Credo che Ronald Reagan abbia cambiato la traiettoria degli Stati Uniti come né Nixon né Clinton sono riusciti a fare. Ci ha indirizzato lungo un sentiero diverso perché la nazione era pronta per questo.
L’America non ne poteva più degli eccessi degli anni Sessanta è Settanta, di questo governo che era cresciuto e continuava a crescere e non appariva trasparente, né responsabile. Lui ha dato alla gente quello che la gente voleva: chiarezza, ottimismo, il ritorno al dinamismo e allo spirito imprenditoriale”. È vero, la sintonia tra Reagan ed il suo popolo è stata strettissima. Perfino quando l’opposizione ha marcato la sua distanza dal presidente, l’ha fatto con grande rispetto e mai mettendo in discussione i principi ispiratori della sua azione politica, del suo interventismo a difesa dell’America e dell’Occidente, del suo patriottismo e del solidarismo che lo ispirava nella conduzione degli affari politici a sfondo sociale.
In Ronald Reagan. Un conservatore alla Casa Bianca , imponente opera di Edwin Meese III, antico e fedele collaboratore prima del governatore e poi del presidente, edita da Giubilei Regnani (pp.443, € 25,00), il risalto delle qualità politiche dello statista è assoluto, niente è trascurato e soprattutto non vengono minimizzati i gravi problemi che Reagan si trovò ad affrontare, dall’Irangate all’invasione di Grenada per scongiurare l’insediamento di un regime marxista nell’isola che avrebbe minato l’area caraibica come ipotizzavano sovietici e cubani.
Nel 1983, il 25 ottobre per l’esattezza, i militari statunitensi sbarcarono a Grenada e, dopo aver piegato la resistenza delle forze presenti sull’isola, rovesciarono il governo militare da poco al potere.
L’invasione venne condannata dall Onu come un attentato alla sovranità di Grenada ed una violazione del diritto internazionale. Curiosamente anche i tradizionali alleati degli Stati Uniti, come il Regno Unito ed il Canada, criticarono l’operazione chiudendo gli occhi sui pericoli che la minaccia comunista innescava se si fosse fatto finta di niente.
Il solito Occidente rinunciatario, insomma, si oppose a Reagan che vedeva più lontano e immaginava ciò che i sovietici avevano tenuto ben nascosto, vale a dire l’uso di Grenada come una “pista” dalla quale far partire azioni di disturbo degli interessi americani nel centro e nel Sud America, con l’obiettivo di conquistare commercialmente paesi vitali per l’economia statunitense e stabilire un’ipoteca politica sugli stessi. Meese, membro autorevole del partito repubblicano, procuratore generale dal 1985, collaboratore di Reagan in tutta la sua vicenda politica, narra con dovizia di particolari l’ascesa e la conduzione della presidenza più autorevole che il vecchio Gop abbia avuto nel secolo scorso. E soprattutto come ed in quale misura egli vinse la Guerra Fredda senza sparare neppure un colpo di carabina.
Il suo lascito più grande, come disse la Thatcher “è stato quello di aver dato il via a una delle più significative espansioni delle libertà personali e della democrazia a cui l’essere umano abbia mai assistito”. A Reagan non sarebbe saltato in mente di “esportarla” la democrazia, ma indubbiamente contribuì a diffonderla con la persuasione e con la sottile arte della diplomazia e della forza della ragione laddove poteva, favorendo, non solo nell’emisfero occidentale, cambiamento ed innovazione senza umiliare popoli, né costringere Stati a violare diritti internazionali per difendere se stessi.
Quasi un prodigio. Come osserva acutamente Francesco Giubilei, editore del volume e prefatore dello stesso, “nell’immaginario collettivo le riforme e le novità sono realizzate da forze politiche progressiste, in realtà non c’è nulla di più sbagliato. È insito nel dna di ogni conservatore lavorare per migliorare il proprio paese e la propria patria come ha fatto Reagan”, i cui risultati sono stati decisivi per condurre la barca americana in porti relativamente tranquilli nonostante le turbolenze che negli anni Novanta e poi fino all’11 settembre 2001 si fecero quasi indomabili.
Fu grazie al lascito reaganiano, nell’amministrazione e nella sfera sociale, se il Paese poté resistere e reagire. Soprattutto perché aveva infuso nelle strutture civili e politiche una sorta di sentimento nuovo della patria comune, come si evince dalle pagine della biografia di Meese III, il quale ricorda il discorso di insediamento di Reagan, il 20 gennaio 1981, nel quale parlò di un nuovo inizio per l’America e dell’importanza delle tradizioni e delle sfide che l’attendevano: due linee-guide proprie dei conservatori.
Ricorda Meese, con accenti quasi commossi: “Mentre il presidente si accingeva a prendere il controllo della sua nuova posizione, i presagi sembravano volgere a nostro favore. A inizio giornata il tempo sembrava cupo e nuvoloso. Ma mentre Reagan parlava, i cieli sulle nostre teste si erano schiariti, e il panorama fu illuminato dalla luce del sole. Poi, poco dopo la fine del discorso, ricevemmo la notizia che gli ostaggi in Iran erano stati rilasciati e stavano tornando a casa. Un inizio di amministrazione propizio da tutti i punti di vista”.
Subito dopo, Reagan impegnò tutte le proprie energie per smantellare le incrostazioni che avevano reso difficile la vita degli americani dopo le incerte amministrazioni di Ford e di Carter. Provvide all’alleggerimento fiscale convinto com’era che l’alta tassazione frena la produzione industriale; ottenne un considerevole aumento del Pil; vide crescere la ricchezza nazionale ed individuale; riaccredità gli Stati Uniti come potenza economica fondata sul controllo della spesa federale. La Reaganomics divenne una “dottrina” studiata ed imitata, mentre il conservatorismo di fondo, ispirato soprattutto da Russell Kirk e dall’esempio di Barry Goldwater con il quale aveva collaborato negli anni Sessanta, riprendere quota fino a diventare un riferimento imprescindibile dentro e fuori i confini americani.
L’epoca reaganiana, conclude Meese III, fu estremamente importante in termini di obiettivi raggiunti, a dimostrazione che “una leadership forte guidata da sani principi” poteva fare la differenza tanto nella politica interna che in quella internazionale. Insomma, Reagan mostrò al mondo che un leader politico, dotato di forti convinzioni poteva innescare cambiamenti significativi poter quanto le condizioni generali fossero avverse. Una lezione di allora che vale per sempre. Soprattutto per questa plumbea epoca popolata da mezze figure che sfidano il ridicolo posando da statisti immaginari.