Skip to main content

La ricetta di Savona è giusta, ma va coniugata in una nuova politica economica

savona

La lettera che Paolo Savona ha concesso a Il Messaggero, merita attenzione. L’allarme che lancia sui possibili esiti negativi di una recessione, che si annuncia minacciosa, non solo è condivisibile, ma è corroborata da fenomeni sociali che stanno dilagando nei principali Paesi europei. A scendere in piazza contro ogni ipotesi di austerity non sono solo i gilet gialli francesi, che fanno notizia per le continue scorrerie. Ma gli stessi inglesi, malgrado la Brexit, hanno fatto sentire la loro voce. Un corteo pacifico ed ordinato, ma non per questo meno significativo, che è sfilato per le vie di Londra chiedendo una politica di sviluppo. Che poi è l’unica speranza per ridare un senso alle prospettive di un intero Continente. Si può, infatti, criticare quanto si vuole la politica di Donald Trump, ma non il fatto che comunque negli States il tasso di disoccupazione è al di sotto del suo limite fisiologico.

Paolo Savona fa proprie le critiche dell’Economist, che non ha mai visto di buon occhio la nascita dell’euro. L’autorevole settimanale inglese era scettico in epoca non sospetta. Lo è ancor di più ai tempi della Brexit che rischia di mettere in discussione il primato finanziario della piazza londinese. Chi pensava che, uscendo dal perimetro europeo, avrebbe rinverdito un’antica vocazione cosmopolita della finanza inglese è, almeno in parte, costretto a ricredersi. Londra, perdendo il passaporto europeo, rischia di regredire di fronte ai colossi americani e cinesi, che segnano sempre più i confini della geopolitica prossima futura.
Fatta quindi la tara alle critiche d’oltre Manica resta, tuttavia, il problema di spiegare la radice profonda del malessere continentale. L’attenzione di Savona è soprattutto concentrata sui limiti della politica della Bce.

Suo antico cavallo di battaglia. Difficile dargli torto quando se la prende con l’ortodossia di Jean-Claude Trichet, che ne fu il presidente prima di cedere lo scettro a Maio Draghi. Ma proprio i formidabili limiti di quella gestione dovrebbero indurre ad un giudizio più sereno sulla figura ed il ruolo esercitato da quest’ultimo. Nella logica della Bce il peso della continuità è debordante. Le innovazioni di politica monetaria implicano confronti al color bianco all’interno di un board dominato dall’ingombrante presenza della Bundesbank e dei suoi alleati.

Può anche essere vero che “la promessa del 2012 di fare whatever it takes per salvare l’euro è stato un atto improvvisato”. Ma c’è stato. In passato quando la Bundesbank dominava il mercato europeo, l’aumento dei tassi d’interesse tedeschi per far fronte alla riunificazione delle due Germanie determinò la crisi del Sistema monetario europeo, con il susseguirsi di svalutazioni che portarono, in Italia, alla crisi della Prima Repubblica. Draghi ha, quindi, operato in un ambiente difficile, per non dire ostile. E questo gli va riconosciuto, checché ne dica l’Economist.

Sul resto, invece, Paolo Savona ha pienamente ragione. Nel documento (Una politeia, per un’Europa diversa, più forte e più equa) da lui stesso redatto, per essere inviato a Bruxelles e Francoforte, nuovamente riproposto, c’erano tutti gli ingredienti, che dovevano legittimare una diversa politica economica, anche per l’Italia. Ma non ha avuto successo. “Nel caso dell’Italia – precisa nella sua lettera – il dialogo europeo è stato pazientemente e insistentemente ricondotto dalla Commissione, cavalcando la spinta della speculazione di mercato, su questo piano tradizionale” – i soli parametri fiscali – “mantenendo l’euro in uno stato di insicurezza”. Descrizione ineccepibile. Ma, appunto, solo descrittiva.

Forse quel balzo in avanti richiedeva qualcos’altro. Un’iniziativa politica e comunicativa che, francamente, non si è vista. Sebbene ve ne fossero le condizioni. Il governo italiano, da questo punto di vista, è stato fin troppo silente. Quando lo stesso Parlamento europeo, in vista del rinnovo del “fiscal compact” aveva mostrato più coraggio, fino a giungere alla bocciatura della proposta (25 voti a favore e 25 contrari) avanzata dal relatore di inserire definitivamente quelle norme nell’ordinamento europeo.

Eppure Savona aveva fornito alla presidenza del Consiglio tutti i necessari elementi conoscitivi. Aveva colto con lucidità la contraddizione di un Paese, come l’Italia, che dal 2012 esporta tutto: uomini, merci e capitali. Una sorta di ripetizione di quanto si era visto alla fine degli anni ’60, ma in una prospettiva completamente diversa. Allora il traino esclusivo delle esportazioni rappresentava la leva fondamentale per trasformare un’economia, in precedenza soprattutto agricola, in una realtà industriale. Oggi, invece, quello stesso eccesso, che riverbera nel surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti e quindi nell’eccesso di risparmio destinato ad essere esportato, si trasforma in una trappola, che spinge verso l’alto un tasso di disoccupazione sempre meno sostenibile.

C’erano gli argomenti giuridici per sostenere la necessità di un cambiamento effettivo e, non solo, parolaio? Ne siamo convinti. Nella legislazione europea non è presente solo il “fiscal compact”. Gli fa da contrappunto il tema degli squilibri macroeconomici su cui è necessario intervenire. Basta rileggersi il Documento dei cinque presidenti. Era quindi questo l’argomento centrale da portare a Bruxelles, e non la preventiva discussione sui decimali di deficit. È infatti evidente che il fiscal compact deve essere reso ancor più stringente nel caso in cui si verifica un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Fu così in Italia nel 2011, quando uno squilibro strutturale, di medio periodo, raggiunse il 3 per cento del Pil. Ma è controproducente nel caso opposto: come avviene attualmente nel nostro Paese, in Olanda o in Germania. Solo per citare i Paesi che hanno dalla loro numeri più importati.

La verità è che una simile discussione avrebbe richiesto un corollario, che l’attuale governo non era in grado di sostenere. Una politica di sviluppo coerente con le premesse richiamate: principalmente basata sulla riduzione del carico fiscale, in un’ottica di riforma dell’intero sistema impositivo, e sulla forte ripresa degli investimenti. Altro che No Tav e reddito di cittadinanza! Qui è cascato l’asino. Nella realtà italiana è necessario agire, contestualmente, sulla domanda interna e sull’offerta. Graduando gli interventi, con l’obiettivo di realizzare il massimo dello sviluppo possibile, per far scendere il rapporto debito – Pil. Lo stesso contratto di governo doveva avere questa caratura. Che non c’è stata. Né sarà possibile affidare le residue speranze ad investimenti di tipo europeo, che sono comunque necessari, ma non certo risolutivi. Ed allora non resta che prenderne atto, sperando che allo strabismo programmatico del governo si possa, quanto prima, porre fine. Per consentire all’Italia di uscire dalle secche in cui si è cacciata.


×

Iscriviti alla newsletter