Gli analisti di Credit Suisse questa mattina hanno diffuso un report dedicato alle prospettive per il 2019. I fattori in campo e dei quali tener conto sono tanti: i tassi sul costo del denaro della Fed, l’andamento degli spread nell’eurozona e l’avanzata dei populismi, tanto per citarne alcuni.
E proprio partendo da quest’ultimo aspetto che gli esperti della banca d’affari elvetica sottolineano come “l’insorgere del populismo implica politiche che minacciano di mettere in stallo la globalizzazione e bloccano l’integrazione sempre più stretta delle economie oltre a far oscillare l’equilibrio di forze dal capitale verso il lavoro, segnando pertanto un’inversione del trend di salari reali stagnanti a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi trent’anni”, si legge nel documento del Credit Suisse. “Questo sviluppo del populismo significherebbe probabilmente il mancato allentamento delle tensioni commerciali. Abbinato a questi livelli elevati di debito e a una traiettoria fiscale insostenibile, tale fenomeno crea anche un rischio di inflazione”. Il messaggio è chiaro, i governi in odore di populismo rischiano di portare nei fatti a una frenata della globalizzazione, con un conseguente ritorno al passato.
Di qui il rischio che si possano ampliare i gap tra le differenti politiche monetarie. La Bce in Europa e la Federal Reserve negli Stati Uniti. “Ci attendiamo il perdurare delle divergenze nella politica monetaria globale, sulla base di differenze nelle prospettive economiche relative e sull’inflazione nei Paesi”, scrivono gli esperti svizzeri. La questione dei tassi è centrale. E non solo per quelli applicati sul costo del denaro dalle banche centrali, ma anche per quelli sulle emissioni di debito sovrano. L’Italia, per esempio, viene da una stagione di tassi al rialzo, visto che l’aumento dello spread ha messo a serio rischio la sottoscrizione di debito italiano da parte di investitori esteri.
Nonostante le cedole più alte a ogni missione, all’estero la fuga dal nostro debito è proseguita in queste settimane. Secondo gli ultimi dati di Bankitalia, è infatti diminuito ancora lo stock di titoli di Stato italiani detenuti da investitori stranieri. Più nel dettaglio, a novembre, l’ammontare dei titoli di Stato nel portafoglio di investitori non residenti era pari a 651,5 miliardi di euro, in calo di 4,7 miliardi dai 656,2 miliardi del mese precedente e di ben 70,6 miliardi dal picco di aprile quando lo stock era pari a 772,1 miliardi. Tenendo conto della massa complessiva del debito pubblico, pari a 2.335,1 miliardi, la quota di titoli in mano a investitori esteri ad ottobre era pari al 27,9% circa del debito, mentre ad aprile si attestava sopra il 30%, al 31,2 per cento.
Tornando al Credit Suisse, un ultimo capitolo del report è dedicato all’energia e alle telecomunicazioni. Che cosa succederà nei prossimi anni? Gli esperti non hanno dubbi. I mercati cosiddetti sviluppati, come l’Italia, non faranno altro che ri-allocare le fonti energetiche, spostandone il baricentro sulle rinnovabili mentre i mercati emergenti utilizzeranno le proprie risorse direttamente ed esclusivamente nell’energia pulita. Una bella differenza.