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Trump pensa anche all’opzione militare per il Venezuela. Parola di Graham

Ieri il sito Axios, sempre molto informato sulle dinamiche politiche americane, ha pubblicato uno scoop firmato da uno dei suoi migliori giornalisti, Jonathan Swan, che parte così. “Il senatore repubblicano Lindsey Graham mi ha detto che recentemente, un paio di settimane fa, [il presidente] Trump gli ha parlato della possibilità di usare la forza militare in Venezuela, dove il governo degli Stati Uniti sta attualmente spingendo per un cambio di regime usando pressioni diplomatiche ed economiche”.

Prima di andare avanti: Graham è un senatore che ha facilmente accesso diretto allo Studio Ovale perché Donald Trump lo considera un ottimo consigliere per faccende di politica estera (più che altro quelle mediorientali, in realtà). Delineati i contorni della figura, quello che dice sembra interessante e sembra aggiungere dettagli alla fase che sta accompagnando la rivolta con cui il capo dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó, ha preso il controllo del paese per cercare di rovesciare la dittatura di Nicolas Maduro.

Graham ha detto a Swan: “Lui [Trump] m’ha detto: Cosa ne pensi dell’uso della forza militare? e io risposi: Beh, devi andarci piano, potrebbe essere problematico. E lui: Beh, sono sorpreso, tu vuoi invadere tutti.“. La risposta ironica di Trump si deve alla linea del senatore, più legata all’impegno globale americano, un classico bipartisan, che Trump – il presidente che vuole porre gli Stati Uniti in posizione più protetta attraverso l’America First – vede come interventista.

L’intervista è stata condotta telefonicamente domenica pomeriggio, e sebbene Graham abbia confermato che la posizione “da falco” come sul Venezuela, Trump non l’ha quasi mai assunta su altri dossier, una specificazione è necessaria. Al momento gli Stati Uniti non hanno nessun piano per invadere il territorio venezuelano – e questo lo conferma anche Swan, riferendosi a quello che dicono tutte le sue altre fonti all’interno dell’amministrazione.

Quello che succederà quasi certamente invece è l’aumento della pressione politico-diplomatica ed economica sul regime. Washington potrebbe colpire pesantemente il petrolio, il bene enorme che potrebbe far essere il paese uno dei più ricchi del continente americano (e invece la dittatura chavista l’ha ridotto alla fame), e poi la ricchezza offshore di Maduro. Ci saranno sanzioni e tentativi di deviare quella ricchezza verso il leader dell’opposizione Guaidó, che Trump ha riconosciuto la scorsa settimana come presidente ad interim del Venezuela.

In realtà, quella di Graham è sostanzialmente una conferma a una dichiarazione dell’agosto 2017, in cui Trump già parlava di “opzione militare” contro il regime di Maduro, e le parole del senatore spiegano che anche adesso, che le cose hanno cambiato ritmo in accelerazione, tutte le opzioni restano sul tavolo.

Non ci sono informazioni ufficiali, ma è del tutto probabile che i pianificatori militari del Pentagono abbiano già studiato tattiche e strategie (sarebbe del tutto normale, è il loro lavoro, ndr). È altrettanto possibile che – come successo per esempio col dossier nordcoreano – l’evocazione di scenari militari sia utilizzata come leva per portare Maduro e suoi fedeli a una resa negoziata (difficile pensare che Graham, visto il rapporto personale che s’è costruito con Trump, abbia parlato al di fuori di una schema che prevedeva la diffusione di un messaggio. Ndr).

Poi c’è un’altra considerazione che riguarda la struttura interno dei più stretti collaboratori della Casa Bianca. Nel corso di questi due anni, c’è stato un ricambio totale e profondo non solo delle persone, quanto degli assetti. I cosiddetti normalizzatori, come l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, HR McMaster, o il segretario alla Difesa, James Mattis, e quello di Stato, Rex Tillerson, sono stati sostituiti da elementi che sembrano meno intenzionati a frenare gli istinti del presidente.

Fa notare Swan che il Venezuela può essere un altro caso di studio (dopo il ritiro dalla Siria, o dall’accordo sull’Iran) su come la politica estera americana sia cambiata e abbia preso una nuova velocità.

Nell’estate del 2017, il sistema di sicurezza nazionale, intelligence e difesa americano, aveva creato una “escalatory roadmap” per gestire Maduro. Si trattava di un vademecum su come reagire davanti alle atrocità del regime, approvato dal presidente: secondo un alto funzionario sentito da Swan, tutte le red lines poste in quel documento strategico sono state superate rapidamente dal regime di Caracas (manifestanti uccisi, oppositori arrestati, il parlamento eletto e presieduto da Guaidó spogliato del ruolo istituzionale).

Sarebbe dovuto partire già un embargo petrolifero totale, ma alcuni degli allora normalizzatori convinsero il presidente a frenare. In particolare fu il consigliere economico della Casa Bianca, Gary Cohn, a spiegare a Trump che un embargo avrebbe sconvolti i mercati e peggiorato la crisi nel paese. Cohn è un altro di quelli che non c’è più tra lo staff di alti papaveri che bazzica lo Studio Ovale.

Da quando i Democratici hanno vinto la Camera nelle elezioni di metà mandato, diversi analisti hanno iniziato a ipotizzare che Trump, praticamente bloccato al Congresso (perché senza una delle due camere), avrebbe dato accelerazione alla politica estera e di sicurezza nazionale (dove invece ha mani più libere dai legislatori), anche perché si stava liberando di quegli elementi che lo rallentavano deviandolo su decisioni più riflessive.

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