Almeno nella fase iniziale, il secondo discorso sullo stato dell’Unione (Sotu) di Donald Trump è volato alto, zeppo di bipartisanship e largo su concetti di “unità nazionale”. È sembrato distante dalla polarizzazione della politica interna americana e dalle divisioni che lui ha sfruttato, esacerbato, per vincere la corsa alla Casa Bianca contro i Democratici.
Divisioni che mai dallo Studio Ovale ha cercato di colmare: ma il Sotu è un momento speciale – studiato in ogni dettaglio così come studiato è stato lo spirito dimostrato da Trump – e con la crisi dello shutdown solo momentaneamente risolta (passaggio in cui i cittadini americani hanno toccato con mano, sulle proprie tasche, gli effetti di quella polarizzazione divisiva) non poteva essere altrimenti. D’altronde lo stesso Sortu è stato spostato al 5 febbraio per effetto di un braccio di ferro, vinto dai democratici, che chiedevano il rinvio a quando lo shutdown sarebbe stato sbloccato.
Parlerò di “un programma per il popolo americano”, ha detto Trump, non un piano dei Repubblicani, perché “insieme” (con i Dem) possiamo “risolvere” le cose, “costruire nuove soluzioni e sbloccare quella straordinaria promessa che è il futuro dell’America”.
Applausi (anche se l’Editorial Board del New York Times fa notare che non è stato troppo convincente e credibile). Anche dai democratici, con la leader del partito di opposizione, la speaker Nancy Pelosi, in piedi per una necessaria standing ovation. Sorpresa, anche perché nel pomeriggio il New York Times aveva messo per primo la giusta dose di veleno: durante il pranzo di ieri, quello in cui si invitano per rito alcuni giornalisti per qualche anticipazione e commento sul discorso, Trump aveva deriso diversi democratici per divertire i propri commensali (ad esempio: “Spero di non aver ferito troppo Pocahontas … Mi piacerebbe correre contro di lei”, a proposito di Elizabeth Warren, senatrice leftist del Massachusetts candidata alle presidenziali del 2020 che il presidente chiama Pocahontas perché lei rivendica lontane origini indiane; o ancora, augurandosi che il suo sfidante potesse essere l’ex vicepresidente Joe Biden, perché “non è mai stato intelligente […] è proprio un imbecille”; e poi su Chuck Schumer, leader della minoranza al Senato: è “un maledetto figlio di puttana”).
Il senso generale della parte iniziale del discorso è servito per coprire l’argomento che sta più a cuore al presidente: l’economia, che serve alla “prosperità” americana (elemento lessicale ripetuto per 32 volte nel documento strategico nazionale pubblicato un paio di anni fa come atto d’indirizzo dell’attuale amministrazione). Trump sa perfettamente che si bea di una sorta di boom economico di cui non è lui l’artefice — innescato da circostanze complesse negli anni scorsi, adesso mette in piana vista gli effetti. Ma ora è lui il presidente, ed è lui a rivendersi con gli elettori la situazione positiva.
La fase successiva del Sotu è stata meno tranquilla. Trump è entrato a tratti in modalità comizio e, dopo essersi preparato il terreno, ha lanciato qualche colpo — d’altronde è pur sempre il presidente che su Twitter aveva chiesto ai suoi fan di ascoltare il Sotu condividendo il dato sull’approval al 48 per cento diffuso da Drudge Report, uno sgangherato sito cospirazionista dell’alt-right americana (l’ultimo dato dell’istituto Gallup, il più serio di tutti, dice che l’approval è al 37 per cento; lo storico dice che non ha mai superato il 50). Ha iniziato dal Muro, ribadendo la necessità come sicurezza nazionale, senza però dichiarare ancora lo stato di emergenza con cui potrebbe accedere a fondi extra, visto che i Dem non vogliono mettere a bilancio nemmeno un dollaro per l’infrastruttura — e se vogliamo pure questo è un segno di tranquillità istituzionale dedicata al Sotu.
L’opera al confine col Messico è la materializzazione delle distanze tra democratici e repubblicani, e dal 15 febbraio potrebbe essere di nuovo l’argomento al centro di un altro shutdown, visto che il decreto per la riapertura degli uffici federali porta quella scadenza ben precisa (nota: lo shutodown è stato sbloccato in via temporanea sotto un accordo che prevede che le negoziazioni per il Muro continuassero per trovare una soluzione, ma in realtà, a un settimana dalla deadline, non sono nemmeno ricominciate). La Dem Stacey Abrams (mancata governatrice della Georgia per un soffio), che ha tenuto il classico contro-discorso, ha accusato Trump di aver portato il discorso sul Muro all’estremo, dicendo che il presidente “ha sfidato ogni principio di equità e abbandonato non solo il nostro popolo, ma i nostri valori”, aggiungendo che sarebbe bello poter lavorare in modo bipartisan, ma non è possibile farlo con una “amministrazione ha scelto invece di mettere in gabbia i bambini e separare le famiglie” (il riferimento è alle separazioni parentali ordinate dal governo alle guardie frontaliere al confine messicano).
In mezzo altri passaggi abbastanza protocollari, perché il Sotu è un rituale patriottico secolare, e Trump (per quanto figura distruptive, che piace per questo) sa di non poterlo usurpare. A un certo punto sono partiti i cori “Usa! Usa!”, perché il presidente ha parlato di donne: delle nuove assunzioni nello scorso anno, dove la maggioranza dei posti di lavoro è stato occupato da donne, e poi del Congresso, dove la rappresentanza femminile non è mai stata così alta numericamente — la gran parte sono democratiche, e la loro presenza è frutto anche di una reazione anti-Trump, un presidente contro cui il primo movimento di opposizione fu proprio la Women’s March (con tutte le falle e le incoerenze), un presidente che scandalizzò con l’audio rubato del “grab’em by the pussy”. Le democratiche (tutte in bianco in memoria delle prime suffragette), che hanno una folta componente femminile già candidata per il 2020, si sono alzate in piedi e hanno applaudito, festeggiato.
Qualche spunto sulla politica estera: per primo l’annuncio che l’incontro col satrapo nordcoreano Kim Jong-un sarà il 27 e 28 febbraio in Vietnam. Poi un passaggio sulla bontà della decisione di ritirarsi da Siria e Afghanistan, scelta messa in chiave America First, prosperità, interesse, riequilibrio. Poi il Venezuela: Trump ha parlato dei danni fatti dal socialismo chavista, il regime di Maduro che ha affamato una nazione teoricamente ricca, e ha detto che “l’America non sarà mai socialista”. Più che un appoggio alle opposizioni nel paese sudamericano, una frecciata alle politiche piuttosto di sinistra (sulle tassazioni per esempio) spinte da alcuni democratici come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez o il senatore Bernie Sanders.