Uno dei risultati più evidenti della attuale stabilizzazione delle operazioni in Siria è la prossima e prevedibile eguaglianza dei potenziali offensivi sul terreno. Gli Usa pensano però di non doversi occupare più di Damasco, ritenendo che il fine ultimo della War on Terror sia quello di evitare attacchi jihadisti sul loro territorio o verso le loro basi. Come spesso accade, una psicopolitica ad uso interno che si ammanta di strategia globale, peraltro errata. Troppo poco come fine politico Usa, ovviamente, ma ormai siamo già entrati nel classico ciclo overstretch “ritorno subito a casa”, che caratterizza la storia ciclica americana del burst-burn strategico, che funziona come l’economia finanziaria di crisi-espansione, ma comunque anche antica e jeffersoniana, della geopolitica di Washington.
Una “geopolitica degli stati alterati della coscienza”, potremmo definirla così. Abbiamo già notato, in altri documenti, la questione della base americana- Esercito Libero Siriano di Al Tanf, essenziale per coprire la Giordania e per evitare accerchiamenti sull’Eufrate da parte del jihad califfale; ma che oggi è un bivacco incerto di terroristi, ma certo “moderati”, legati appunto all’Esercito Libero Siriano. Fu questa, l’Els, la prima operazione in ordine di tempo, in Siria degli Usa; l’Els è legato fin dall’inizio alla Fratellanza Musulmana, ma è nato nelle “primavere arabe” del 2011. Se la presidenza Trump se ne va davvero dalla Siria, l’unica variabile ad alta probabilità futura è allora quella di una aperta invasione della Turchia nelle aree curde del Nord e dell’Ovest. Quindi, come è già accaduto, la Rojava curda si dirigerà subito verso Damasco, come peraltro ha già fatto, creando un nuovo fronte interno dentro la Siria, foriero di futuri e gravi pericoli. Ovviamente, l’uscita precipitosa e strategicamente informe degli Usa è anche una grande e unica occasione per l’Iran. Con cui Ankara ha già però un accordo: la tripartizione stabile delle zone di influenza in Siria, già interamente prefigurate nelle “aree di de-conflitto” del 2017. I russi avranno sicuramente la titolarità strategica della loro vittoria in Siria, che è quel che volevano, ma escludendo soprattutto Usa e Ue da quel quadrante (successo facile, certamente). Ma l’Iran avrà comunque raggiunto il suo scopo di mutare, a suo vantaggio, la configurazione dei suoi potenziali strategici lungo tutto il confine siriano con Israele e di arrivare, con la massima potenza destabilizzatrice, politico-militare, verso il suo nuovo Mediterraneo.
La Turchia, vinta la sua battaglia per la Siria, potrà permettersi una nuova area di tutela e controllo contro l’unificazione del mondo curdo ma, soprattutto, si garantirà il passaggio indisturbato dall’Anatolia verso l’Asia Centrale. Quindi, avremo in Siria gli S-300 e le altre tecnologie evolute della Difesa russa, che rimangono in Siria nelle mani degli uomini di Bashar el Assad, ma anche ben 11 tipi di caccia da superiorità aerea tra varie basi (Palmyra, T4, Humaynim e altre due riservate) ma anche tutta la panoplia, evolutissima, delle reti di guerra attiva-controllo in ambito elettronico C3 e dei sensori, anch’esse tutte collegate direttamente con il Comando centrale di Mosca. Gerusalemme porta infine a casa un accordo con Mosca che potrebbe permettere, perfino, una nuova disposizione delle sue operazioni in Siria meridionale o, addirittura, un accordo totale con la Federazione Russa nel controllo bipartito dell’asse Bekaa-Golan e Libano meridionale, in cui entrambi i Paesi hanno interessi potenzialmente convergenti. L’Iran dispone, poi, del suo vero risultato strategico, il “corridoio”, iraqeno-libanese, modesto nella sostanza tecnologica, a parte qualche furto di materiale russo e turco, ma efficacissimo nel permettere, su un fronte più vasto e, soprattutto, nuovo rispetto alle postazioni antiche, la guerra asimmetrica di Teheran contro Israele. I curdi amici di Gerusalemme potrebbero controllare questa rete da Nord.
La Repubblica sciita vuole, certamente, eliminare o rendere irrilevante “l’entità sionista”, come Israele viene chiamato a Teheran, ma vuole soprattutto crearsi, in questo modo, un ruolo primario sulle rive del Mediterraneo, il che avrà risvolti infiniti sul piano dei commerci petroliferi sciiti e della diversa disposizione dei potenziali di difesa intorno all’asse saudita, di cui l’Iran vuole destabilizzare una dopo l’altra tutte le sue, vaste, aree sciite. Poi sarà il momento del Bahrein e di altri Emirati, mentre si muoveranno a raggiera le comunità sciite egiziane, marocchine, tunisine e algerine. Sul piano tecnologico, data la non-disposizione, per ora, di basi missilistiche leggere e stabili sul “corridoio”, anche se vi sono segnali di radicamento, la linea di Teheran è quella di rendere ogni punto del suo “corridoio” un elemento di guerriglia mobile e variabile contro Israele; per poi arrivare, alla fine, ad un incendio di tutta la linea e bloccare il Nord dello stato ebraico. Con un certo e connesso e successivo attacco dalla Striscia di Gaza e, con ogni probabilità, anche da aree già predisposte sul confine ad Est di Israele. La privazione rapida e totale, quindi, di ogni asset strategico, per lo stato ebraico. Ma, finora, i potenziali militari sono ancora asimmetrici, per Teheran. I missili che ha concesso a Hezb’ollah sono tanti, sufficientemente evoluti ma piccoli, adatti soprattutto ad una saturazione delle difese di Gerusalemme, per, immaginiamo, proporre al mondo islamico, subito dopo, un attacco interno e concentrico verso Gerusalemme. Che diventerebbe, così, una semplice e piccola potenza terrestre, inevitabilmente priva dei suoi punti di forza tecnologici, aerei, marittimi, di intelligence dei segnali. Ma l’Iran, lo abbiamo già visto, non si fida nemmeno della Russia, che non ha interesse a coprire stabilmente a Nord il suo “corridoio”.
E, certamente, Mosca non si fida nemmeno dei suoi attrezzi lasciati in area siriana, che vuole controllare stabilmente per evitare proprio quello che invece Teheran vuole: lo scontro tra Mosca e Gerusalemme. Una lotta che amplierebbe ad infinitum l’effetto distruttivo della sua stessa guerriglia e dei suoi piccoli missili, che certo, però, sono oggi ben più evoluti dei giocattoli che, fino a pochi anni fa, forniva a Hezb’ollah. La variabile iraniana per comandare le fasi successive allo scoppio di una guerra a nord di Israele è oggi tecnologica, comunque, e risolve alla radice il différend tra Teheran e Mosca. Si tratta di un missile, lo Hoveizeh. Che è stato testato, per la prima volta, il febbraio 2019. Il nome, non è certo un caso, deriva da una città del sud-ovest dell’Iran che resistette pesantemente all’Iraq nella “guerra di necessità” sciita, quando gli Usa armarono Saddam Husseyn per poi lasciarlo in braghe di tela. E ciò, ovvero il simbolismo della “guerra necessaria”, accade oggi, nel quarantennale della rivoluzione sciita. I simboli hanno sempre un potere strategico essenziale. Si tratta, con l’Hovejzeh, di un missile terra-superficie che ha una gittata media di 1350 chilometri, volando sempre a bassa altitudine; e necessità di un tempo ridotto per il suo armamento. Ha, come ormai accade da anni negli arsenali iraniani, una tecnologia completamente autonoma e“nazionale”. Quindi difficilmente tracciabile. L’Hoveyzeh è, in ogni caso, la risposta diretta iraniana al successo del recente missile israeliano-Usa Arrow (o Hetz) 3. Un ordigno, quello israelo-americano, che era stato testato il 22 gennaio scorso. Si tratta, in questo caso, di un missile eso-atmosferico antibalistico da intercettazione per vettori avversari ma che, ovviamente, può essere anche arma da attacco. La struttura di Arrow 3 consiste peraltro di un missile ipersonico intercettore antimissile, munito anche di un Elta EL/M 2080 Green Pine, che è un radar early warning Aesa, unito infine a un centro C3 e con la rete di industrie aeree israeliane Hazelnut (“nocciola”). Si tratta, però, di un sistema che è già stato dichiarato operativo nel 2000. E, comunque, solo la terza parte del sistema Arrow 3 è stata dichiarata fully operative nel 2017. Arrow 3 può essere anche utilizzato come arma antisatellite, ma non è comunque ancora piaciuto del tutto alle FF.AA. israeliane, che propendono da sempre alla strategia degli attacchi preventivi e della deterrenza, oltre a valutazioni molto problematiche sui costi di questo sistema.
Meglio tanti e magari, poco costosi missili e con scarsa, ma efficiente, tecnologia, oppure pochissimi, cari e, poi, magari, alla fine perfino insufficienti per coprire una salva intesa a saturare il Dome? L’Iran ha già scelto. Sarebbe interessante, però, vedere la scelta finale di Gerusalemme nel campo delle armi missilistiche, per così dire, “di massa”; che sono armi che potrebbero essere adatte anche a strategie dove il punto centrale consiste ancora nell’arma evoluta, che stabilisce in un attimo la superiorità dell’attaccante. Che va, comunque, anche lui saturato velocemente. Ma Arrow 3, guarda caso, è stato testato proprio due giorni dopo l’Hoveyzeh, alla base di Palmachim, nel centro di Israele, ma prossimamente vi saranno altre verifiche nell’isola di Kodjak, in Alaska. L’Arrow 3 è stato messo a verifica dopo che, il lunedì 28 precedente, un missile iraniano, lanciato dai cieli siriani, era stato intercettato dalle strutture di Gerusalemme. Comunque, la serie di vettori di Teheran lanciati verso Israele è stata, negli ultimi giorni, notevole: un Fajr 5 (35 chilometri di raggio operativo) il 29 dicembre u.s., ma il 21 gennaio è stato lanciato un Fatteh 100 (300 chilometri di raggio di azione) verso il Golan, che pure è stato intercettato. E ce ne sono stati altri, minori. Quindi, mentre Israele e gli Usa sviluppano missili ipersonici capaci di colpire fuori dall’atmosfera, l’Iran segue la politica esattamente contraria, quella della costruzione di vettori del tutto tradizionali, ma che siano capaci di andare a lungo a bassa quota dal terreno; dato che nessuno, a tutt’oggi, può costruire tecniche di intercettazione valide prima che il missile sia stato effettivamente lanciato. Israele ha anche usato recentemente i missili (il Delilah, 250 chilometri di raggio di azione) che non sono peraltro stati intercettati dai russi o dai siriani; gli Usa hanno ancora il Medio Oriente i vecchi Tomahawk e i russi utilizzano i loro più recente Kalibr, ma tutti sono controllabili sempre e solo dopo il loro lancio, se tutto va bene. Una risposta a questo problema è quella dei missili lanciati dalle navi, che però devono, per essere utili, intervenire in una area già piena di sensori e radar.
Ma, anche in questo caso, si tratta di operazioni tracciabili solo per vaste aree di mare e di terra e per i soli lanci principali, ma questa tattica è sostanzialmente inutile per contrastare i missili di superficie a bassa altitudine. Quindi, Gerusalemme opera oggi con una strategia ad alto contenuto tecnologico, che colpisce in modo selettivo e nei momenti migliori, per depotenziare il nemico iraniano e rendergli inutile l’attacco di massa con testate piccole e di superficie. Ma basterà? Non crediamo. Dovrebbe però essere possibile, per Gerusalemme, rispondere rapidamente con una saturazione uguale e contraria; per evitare la cecità temporanea dei sensori e l’eccesso di costo di tecnologie molto “americane”, ovvero tanto lussuose ma, spesso, di scarso effetto. Ma anche gli Usa, prima di lasciare il quadrante siriano, hanno svolto attacchi in territorio siriano; proprio il 3 febbraio scorso tra Abu Kamal e Deir Ezzour, con un probabile danno collaterale alle artiglierie siriane. Tre missili iraniani erano già stati messi in azione, il 2 febbraio, presso la base statunitense di Ain Al Assad in Anbar, ma non sono stati attivati grazie ai soli servizi iraqeni. Ovvero, Teheran vuole chiaramente gli Usa fuori non solo da tutta la Siria, ma anche dall’Iraq.
Senza questa preventiva “ripulitura” del territorio, che interessa in primo luogo la stabilizzazione delle forze missilistiche iraniane; tutte le variabili di comando, direzione e risposta contro i vettori di Teheran, comunque grandi o numerosi, sono troppo pericolose per la stessa Repubblica sciita. È probabile però che le basi missilistiche che gli Usa hanno colpito il 3 febbraio fossero quelle della Forza Al Qods dei Pasdaran. In quell’area, vi sono anche le basi di una milizia sciita iraqena agli ordini diretti della Al Quds, ovvero il Kataib Hezb’ollah, che fa da linea di comunicazione tra le forze iraniane in Iraq e quelle in Libano. Un asse essenziale de il “corridoio”. Da questo punto di vista, è certamente funzionale alla nuova stabilità siriana la politica neo-antisemita di Erdogan, che infatti ha fatto recentemente arrestare Dawud Baghestani, il segretario della Associazione per l’Amicizia Israelo-Curda, che è anche direttore della rivista ufficiale curdo-israeliana. Trump ha quindi abbandonato del tutto sia Israele che i curdi, in Siria; e quindi è ovvio che ora i turchi vogliano controllare tutta l’area curda mettendo in difficoltà grave anche Israele, ormai unico riferimento organizzativo, finanziario, militare della Rojava. Gli americani abbandoneranno certamente sia Al Tanf, ma non sappiamo come, ma anche la zona di Al Bukhamal, ai confini dell’Iraq, l’ultimo troncone di copertura occidentale tra l’area iraniana e il mondo siriano. È proprio questo il punto che manca, a tutt’oggi, per chiudere il ben noto “corridoio”. Il fine politico di Erdogan è quello di dimostrare vi è ancora un nesso tra l’intelligence americana e israeliana e i curdi, il che sarebbe la massima giustificazione possibile per una presa finale della Rojava. E quindi si tratta di coprire, con una pretesa operazione dei Servizi turchi, la volontà da parte di Ankara di prendersi e controllare tutta la Siria del Nord, a maggioranza curda. La guerra delle parole, qui, tra Israele e la Turchia è sempre molto evidente e chiara, nei suoi fini strategici.
Due anni fa, infatti, Netanyahu dichiarò che Israele ha dichiarato il Pkk un “gruppo terrorista”, diversamente da quello che ha sempre detto Ankara riguardo ad Hamas. Ma, sempre in quell’occasione, il premier israeliano dichiarò che una cosa è contrastare il terrorismo, anche curdo, un’altra è accettare, cosa che Israele sostiene, la libera rivendicazione del popolo curdo, che desidera la sua libertà e autonomia. Ovvero, la Rojava, qualora se ne vadano via gli Usa e la Turchia e continuerà a evitare qualsiasi apertura all’autonomia dei territori curdi in Siria, senza comunque metterli in comunicazione con quelli turco-anatolici, essa diventa oggetto preferenziale delle attenzioni di Gerusalemme. Che utilizzerà, Israele, i suoi antichi e ottimi rapporti con i curdi per utilizzarli sia contro il “corridoio” iraniano-libanese che per evitare una pressione iraniana, siriana o di altri sui confini nord tra Israele e Siria. E per trattare magari, da una indiretta posizione di forza, anche con i russi, che comunque non hanno alcun interesse ad utilizzare l’area curda né contro l’Iran né verso la Turchia. Naturalmente, Putin ha già fatto sapere che non accetterà mai una invasione turca della Siria per i territori curdi, né il controllo turco delle aree curde controllate dallo Ypg. Ecco, quindi, un nuovo assetto della Siria centrale: Gerusalemme gioca la carta curda, sapendo che la Turchia non può prendersela dati i suoi rapporti con la Russia, che bloccherebbe qualsiasi interesse di Ankara in Siria. E, quindi, l’accordo possibile tra Mosca e Gerusalemme prefigura una possibile zona di controllo del “corridoio”, ben prima degli 80 chilometri stabiliti da Gerusalemme; e prefigura una nuova collocazione della Siria in ambito russo.
Ovvero, ancora: Mosca potrebbe anche tollerare la linea tra Teheran e il Libano, ma certamente metterebbe in condizione gli iraniani di accettare pressanti controlli sistematici, remoti o diretti, sul corridoio. E anche una securizzazione aggiuntiva sulle coste libanesi di Hezb’ollah, che opera ormai a ridosso dei porti militari russi di Latakia e Tartus. E questo potrebbe diminuire anche la massa di missili concentrati sulla Bekaa-Golan da parte dell’Iran e di Hezb’ollah; ma rimanendo sempre ben oltre la soglia di letalità e, soprattutto, di saturazione delle aree di attacco nel territorio metropolitano di Israele, che è il vero obiettivo dell’Iran e dei suoi alleati regionali. Quindi: la Turchia dovrà collocarsi ai bordi dell’area curda, pur con tutte le possibili operazioni di harrassment informativo e strategico possibili. Gerusalemme potrebbe controllare anche da Nord il “corridoio”, anche in parziale autonomia dalla Russia. Mosca dovrà mantenere il controllo del centro della Siria (area sunnita, soprattutto) ma in rapporto stabile e non-avverso con i curdi. Poi l’Iran dovrà lottare con alcune frazioni non del tutto avverse del mondo curdo ai confini dell’Iraq, ma la Siria di Bashar el Assad avrà quindi, a queste condizioni, la possibilità di filtrare tutti i finanziamenti per la ricostruzione, ma con il permesso russo-cinese. Ma il vero punto politico è, ancora una volta, la gestione del caos libanese, che è in gran parte concordato tra i veri capi dell’area. Tra i quali non figura più, per ovvi motivi, Bashar el Assad, ma invece contano moltissimo i sauditi, con le loro politiche attuali di asservimento delle vecchie classi politico-affaristiche dell’area costiera. E Riyadh, se gioca a un ruolo, gioca soprattutto al proprio e, al margine, a quello dei turchi.
Come è noto, dopo nove mesi Saad Hariri, già costoso “ospite” del Ritz-Carlton di Riyadh, ha dovuto lasciare in Arabia Saudita buona parte dei fondi che deteneva all’estero, ma non direttamente in Libano. La Saudi Oger aveva un debito di 3,5 miliardi con le banche saudite, debito prontamente ritornato grazie soprattutto agli spicci favori di Mohammed Bin Salman. Ora, libero dalle sue gravi pendenze nel Regno, Saad Hariri è ancora e di nuovo presidente del consiglio libanese. Ma a un prezzo, che certamente non va bene nemmeno a Mohammed bin Salman. Quello di aver formato un gabinetto, di fatto, in mano a Hezb’ollah. La milizia sciita ha ricevuto tre ministeri, compreso quello della Salute, un dicastero che vale il quarto delle spese governative. È un governo, quello di Hariri, che dovrebbe soprattutto riuscire a sbloccare una quota di finanziamenti esteri verso il Libano di almeno 84 miliardi, ovvero il 150% del Pil locale, per risolvere tante cose ma anche la disoccupazione, che viaggia intorno al 36%. Tutta benzina nel motore di Hezb’ollah, che utilizza molti soldi pubblici per l’organizzazione delle sue milizie e per la gestione delle sue opere caritatevoli, che sono anche strutture di guerriglia, di copertura e di addestramento, all’occorrenza. E, probabilmente, sarà solo Hezb’ollah a risolvere la crisi elettrica, che è strutturale in Libano; ed a crearsi quindi una ulteriore base di simpatia e militanza, a copertura delle operazioni militari o, anche, per elaborare strategia di attacco dal sud del Libano.
La costituzione del governo era obbligata: la Banca Mondiale aveva minacciato di trasferire subito in Giordania i 4 miliardi di Usd di finanziamenti previsti precedentemente per Beirut, se in Libano non si fossero decisi presto per fare un governo. La corruzione è sempre rilevantissima, nel Paese dei Cedri, che è uno dei venti paesi più corrotti al mondo. Lo Stato non esiste, quindi, a Beirut. Ora, al centro del sistema di potere libanese vi è comunque il capo di Hezb’ollah, Hassan Nasrallah, che ha come alleato primario Michel Aoun, cristiano maronita legatissimo a Teheran e ai siriani, poi vi è Gebrane Bassile, ministro degli esteri, genero del presidente Aoun, ma legatissimo, personalmente, anche a Hezb’ollah. La linea di Israele, come è notissimo ormai, è stata sempre quella di distruggere preventivamente i tunnel di Hezb’ollah nel proprio territorio e oltre. Il 3 novembre scorso Netanhyahu ha chiarito che queste operazioni continueranno, e dovrebbero avere anche una qualche copertura da parte degli Usa e, perfino, della irrilevante Ue. Ma, a questo punto, vi è un evidente collegamento tra l’uscita degli Usa dalla Siria e la permanenza delle operazioni in Libano da parte di Israele. Ovvio che questo significa soprattutto che gli Usa non potranno più fare alcuna pressione su Aoun e il nuovo governo libanese, per mettere ai margini Hezb’ollah. Quindi, Israele oggi non ha alcun sostegno da parte di Washington per le sue azioni contro i tunnel di Hezb’ollah, che peraltro si collocano ancora presso alcune sacche di “califfato” ai bordi del confine tra Siria e Libano. I dirigenti americani hanno già detto, in Libano, che i capi di Hezb’ollah non dovranno utilizzare i fondi governativi per fare la guerra a Israele.
I buoni propositi, soprattutto in politica estera, sono benvenuti, perché fanno sorridere e distendono l’umore. Ed è accaduto esattamente il contrario, nella divisione dei portafogli ministeriali di Beirut. Al Tesoro va Hassan Khalil, uomo di “Amal”, vecchio movimento sciita, la Difesa va invece a Elias Bou Saab, uomo d’affari legatissimo ad Aoun, la salute, asse di Hezb’ollah da sempre, va a Jamil Jabak, medico sciita molto noto negli ambienti scientifici locali ma, soprattutto, uomo molto legato a Teheran. Gli occidentali, che sono dei veri geni, sostengono Hariri ma non gran parte del suo gabinetto. Il cerchio quadrato della geopolitica. Gli interni sono andati a Raja al Hassan, donna importante e, soprattutto, legata al partito di Hariri ma in ottimi rapporti anche con Teheran e, indirettamente, con Hezb’ollah. In questo modo, avremo in Libano un governo ufficialmente “occidentalista”, ma con una vasta maggioranza para-iraniana, il che indurrà Beirut ad ogni tipo di sostegno per le azioni di Hezb’ollah in Israele.