Giuseppe Conte prende parola in un’aula semideserta. Non erano questi i pronostici per il suo discorso al Parlamento europeo di Strasburgo. Per ogni banco pieno ce ne sono due vuoti. Il presidente del Consiglio spezza il ghiaccio con un ricordo commosso di Antonio Megalizzi, il ragazzo di 29 anni che ha perso la vita nell’attentato di dicembre per mano del terrorista Cherif Chekatt. Prima di avviarsi al leggio dell’emiciclo, una breve visita negli studi di Europhonica, la radio che occupavano giorno e notte Antonio, Bartosz (altra vittima dell’attentato) e una ventina di giovani appassionati di Europa e giornalismo.
Poi la parte più difficile. Guardare negli occhi una delle poche istituzioni europee che i suoi colleghi di governo non vogliono stravolgere da cima a fondo (fatti salvi i piani edilizi di Alessandro Di Battista) e parlare di futuro ed Europa. “Se vogliamo che l’Europa rimanga il nostro futuro comune, è il momento di far seguire alle parole i fatti, avviando insieme un percorso per una nuova Europa, un’Europa del popolo, più solidale” esordisce il premier di fronte a un pubblico distratto. Fra tanta, obbligata retorica c’è qualche spiraglio per uscire dalla “fase critica” che ha fatto perdere al progetto europeo “la sua forza propulsiva”. Ascoltare i governati, e non solo i governanti. Parlare a una voce sola, possibilmente nel Consiglio di Sicurezza Onu. Fare fronte comune alle emergenze che mettono alla prova gli Stati europei, a partire da quella migratoria, che in mancanza di una strategia condivisa mette a rischio “la stessa tenuta dell’Europa unita”.
Tempo di fare un affondo contro il liberismo economico e l’austerity che uccide gli investimenti, e il presidente passa al dossier più delicato: la politica estera. Qui lo attendevano al varco quei (pochissimi) eurodeputati distratti dai cellulari per la prima mezz’ora. Conte difende la linea fin qui seguita, non senza smentite e conflitti interiori, da Lega e Cinque Stelle. No agli schieramenti, alle alleanze senza se e senza ma. Sì al dialogo con tutti, nessuno escluso. Questa, dice Conte, deve essere la ricetta europea. “Crediamo fortemente nel legame transatlantico – spiega – ma “non saprei ravvisare vantaggi per l’Unione europea nel rinunciare al dialogo con Russia e Cina o nell’illudersi di poter promuovere nei loro confronti politiche isolazioniste”.
Un solo, tenue accenno alla crisi diplomatica con la Francia, tuttora irrisolta, perché l’ambasciatore francese Christian Masset è ancora a Parigi, e non a Roma dove dovrebbe stare. Colpa dell’Europa, dice Conte. “I dissidi anche sul piano bilaterale, e in questi giorni ne abbiamo la chiara conferma, rappresentano più l’effetto che la causa di una incapacità dell’Europa di proporre soluzioni”. Non esattamente la ricucitura che si attendeva alla vigilia, e che lo stesso ministro degli Esteri Moavero Milanesi aveva auspicato.
Niente, ma proprio niente da dire invece sul Venezuela. È rimasto deluso chi si aspettava una netta, inequivocabile presa di posizione di Conte di fronte all’emiciclo. Dopotutto l’Italia ha posto un veto contro una risoluzione per il riconoscimento di Juan Guaidò presidente firmata da 21 Stati membri. Silenzio. È Manfred Weber, lo spitzenkandidat del Ppe, a battere il ferro: “penso che dovreste rispondere a Guaidò se pensate che debba esserci un approccio comune europeo”. Ci va giù pesante, con un infervorato intervento in italiano, il presidente dei liberali (Alde) Guy Verhofstadt, noto alle cronache italiane per il fallito tentativo di un’alleanza all’Europarlamento con il Movimento 5 Stelle. Conte è “il burattino di Di Maio e Salvini” tuona l’ex premier belga. Questo “governo odioso”, dice risvegliando l’aula dal torpore, ha “impedito la unanimità su Venezuela sotto pressione di Putin”.