È una vera e propria recessione dei ricchi quella sottesa nell’autonomia differenziata chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, di cui si è parlato ieri al Consiglio dei ministri e di cui si continuerà a parlare nei prossimi giorni. L’iniziativa, nata ancor prima dei referendum consultivi del 2017 nel lombardo-veneto, ha l’obiettivo di decentrare alcune funzioni ora a carico dello Stato, ma non solo: chiede di trattenere parte del gettito fiscale in regione, aprendo dubbi e incertezze sul principio di perequazione, di compattezza e unità nazionale. Dopo il Cdm del 14 febbraio, in cui non si è arrivati all’accordo annunciato nelle ore precedenti, se ne riparlerà nelle prossime settimane, forse addirittura dopo le europee, perché tra Lega e Movimento 5 Stelle le tensioni sul tema – e non solo – sono più che evidenti.
Formiche.net ne ha parlato con Leonardo Becchetti, professore, economista e membro del Comitato preparatorio delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, nonché direttore del sito www.benecomune.net.
Professore, si parla molto di autonomia differenziata per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Alcuni parlano di una secessione dei ricchi, è vero?
Ci sono due pericoli molto grossi, il primo è che se il gettito trattenuto dalle regioni è superiore alla quota di beni pubblici che produce effettivamente la regione, questo vuol dire sottrarre risorse alle altre regioni. Se io trattengo il 90% del gettito, ma poi una parte dei beni che vengono prodotti con le tasse sono prodotti a livello nazionale io sto togliendo soldi alle altre regioni a cui, attualmente, vengono ridistribuite le risorse, e questo è un problema che esisteva già con le regioni a statuto speciale e un pericolo concreto. L’altra questione è che la disparità di welfare che già esiste, pensiamo alla sanità (esiste il fenomeno della migrazione sanitaria per cui ci sono province come quella di Isernia dove quasi il 23% delle notti di degenza fuori provincia è fatto in altre regioni), rischia di accentuarsi. Il rischio è a questo punto che sia ulteriormente approfondito questo divario, ossia che le prestazioni essenziali che il cittadino può richiedere nelle varie regioni diventino appunto molto diverse.
C’è chi dice che una maggiore autonomia regionale possa essere uno stimolo, per tutte le regioni, a migliorarsi…
Purtroppo chi conosce l’Italia sa bene che non è così. È chiaro che bisogna stimolare a far meglio, ma per farlo ad esempio bastano quelle regole che stabiliscono quanto deve costare un certo prodotto per la Sanità negli appalti. Ci sono modi per stimolare la qualità che non comportano ridistribuzione al contrario. Quello che noi vogliamo evitare è proprio la ridistribuzione al contrario, dai poveri ai ricchi, che è quello che genera l’accordo tra le tre regioni e il governo.
Di che cosa non si sta tenendo conto in questo dibattito sull’autonomia, che invece è indispensabile?
Di due cose: uno, di definire esattamente quale sia la quantità di beni pubblici che deve essere necessariamente fornita a livello nazionale e per la quale si utilizzano risorse, appunto, a livello nazionale. Le risorse non possono andare alle regioni. E poi il principio di solidarietà, imprescindibile, che deve essere intelligente, con incentivi. Una solidarietà che può pretendere che agli incentivi corrisponda maggiore qualità.
Uno stop, quello sulle autonomie, che è arrivato dal Movimento 5 Stelle. L’attenzione di questa forza politica verso il sud, in cui è concentrato gran parte del suo elettorato, si è concretizzato con il reddito di cittadinanza. Un buon punto di partenza?
Come abbiamo detto più volte, da una parte una rete di protezione per i più deboli è fondamentale, dall’altra il reddito di cittadinanza ha tantissimi problemi, per esempio non considera in maniera adeguata le famiglie, cioè i coefficienti familiari non sono ben costruiti, quindi favorisce i singoli rispetto alle famiglie; poi c’è uno squilibrio nord-sud, perché considerare una soglia unica vuol dire sopravvalutare la povertà al sud e sottovalutarla al nord, perché lo stesso Istat stabilisce che la soglia di povertà per un single in Sicilia è 560 euro, a Milano è 810 euro, quindi molti poveri del nord non vengono considerati. Ma io direi che il problema più grosso sia il contrasto al nero ed evitare che si disincentivi la ricerca di lavoro.
Come si può agire, in questo senso?
Si possono fare due cose fondamentali, la prima è che il costo per chi fa il furbo, ossia lavora in nero e vuole prendere il reddito di cittadinanza, deve essere alzato, quindi dovrebbero essere previste delle prestazioni sociali obbligatorie per cui chi poi lavora in nero non avrebbe tempo per queste prestazioni sociali obbligatorie. L’altra questione è la formazione: l’incontro tra domanda e offerta di lavoro ha bisogno di formazione e in questo momento nel reddito di cittadinanza le risorse per la formazione non ci sono.
A proposito di divario nord-sud e crisi che il governo si trova ad affrontare questi giorni, la protesta dei pastori sardi sul prezzo del latte non si ferma, malgrado ci sia un tavolo di confronto con il governo. In che modo si dovrebbe affrontare il problema?
Credo che ci siano delle responsabilità anche tra i pastori sardi. Mi spiego meglio: anche in altre zone d’Italia, attraverso la cooperazione, attraverso l’innovazione, la capacità di risalire la catena del valore, i produttori agricoli sono riusciti a migliorare molto le loro condizioni, anche in settori difficili come lo zucchero, la produzione di mele, pere etc. Ci deve essere, insomma, uno stimolo dal basso a migliorare. Dall’altro lato, quando sei debole, poco organizzato e poco innovativo non hai potere di mercato e quindi ti fanno un prezzo molto basso. Ci sono state delle iniziative interessanti come quella della Coop che ha deciso di fare distribuzione responsabile e quindi di alzare il prezzo che paga ai produttori a un euro al litro, però questa è una iniziativa interessante, ma isolata. L’altra possibilità, su cui personalmente sto anche lavorando, è fare qualcosa di simile a quello che è accaduto in Francia.
Ci spieghi meglio.
In Francia un’associazione di 10mila consumatori ha deciso, proprio nel settore del latte, di costruire un prodotto su misura, pagando in maniera dignitosa i produttori, tutelando l’ambiente e la salute, e questo latte che viene venduto con la marca “C’est qui le patron”, che vuol dire “Chi è il padrone”, ha conquistato quasi il 4% di quota di mercato nazionale, quindi spazi enormi. È molto interessante perché segna una capacità di iniziativa e di organizzazione dei consumatori che fino ad ora non si era vista. Ci sono molti modi per intervenire, ma credo che quello peggiore di tutti sia lo Stato che dà una sovvenzione, perché non risolve il problema e prima o poi diventerà un costo che verrà interrotto.