I populisti si proclamano sostenitori dei valori e degli interessi del popolo, contro quelli delle élite. La Lega e il Movimento 5 Stelle si richiamano ai principi populisti, ma li declinano in modi molto diversi.
La Lega supporta il contenimento dell’immigrazione di massa e irregolare, incrementa l’impegno per la sicurezza, appoggia le grandi opere e gli investimenti, opera per la riduzione delle tasse, sostiene le imprese industriali e agricole, valorizza le autonomie regionali, cerca di tutelare pensionati e pensionandi. Certo, lo fa con ricette a volte semplificate, spesso disattente ai vincoli di bilancio, con provvedimenti talora contestabili; ma si impegna per obiettivi coerenti con l’interesse nazionale allo sviluppo economico e alla stabilità sociale, supportati da consenso popolare maggioritario. Con questo mette in atto una sorta di populismo della ragione che attrae consenso nell’area di centrodestra e spiazza i concorrenti presenti nel medesimo spazio politico.
Il Movimento 5 Stelle si prodiga per il reddito di cittadinanza, l’espansione dell’economia pubblica e dello Stato sociale, il contrasto alle grandi opere, l’irrigidimento dei contratti di lavoro, la chiusura domenicale dei negozi. Ma il reddito di cittadinanza, al netto del vantaggio per i fruitori, non può dare spinta produttiva all’economia e non crea nuovo lavoro, come dimostrano anche le esperienze di altri Paesi. Il mantenimento e l’incremento di una presenza pubblica dell’economia non favorisce il sorgere di nuove imprese e il superamento delle inefficienze tipiche dello Stato imprenditore. Le clausole limitative del rapporto di lavoro limitano le opportunità di occupazione. Le chiusure domenicali dei negozi sottraggono posti di lavoro e creano problemi ai consumatori. I grillini in sostanza pongono in essere misure che non corrispondono all’interesse nazionale alla crescita e non risolvono, o addirittura aggravano i problemi. Inoltre, come dimostrano i sondaggi, tali misure non hanno il consenso maggioritario della popolazione italiana, con apici di contrarietà su reddito di cittadinanza e interruzione della Tav.
Appare chiaro che il governo Conte, al di là dei proclami, non può operare come un governo del popolo, perché lacerato dalla diversità sostanziale dei partiti di maggioranza, che hanno proposte politiche e priorità opposte; perché costretto a varare riforme che non sono nell’interesse della popolazione nel suo complesso ma di una minoranza; perché adotta provvedimenti che confliggono con l’interesse nazionale alla crescita. In realtà, al di là della bandiera populista, il governo Conte si palesa come un normalissimo governo di coalizione, alquanto rissoso, nel quale ciascun partito di maggioranza persegue i propri fini particolari, anche contro quelli nazionali e della maggioranza della popolazione; con l’aggravante che la debolezza del presidente del Consiglio ostacola gli sforzi di direzione unitaria della politica di governo, tanto più che il “contratto di governo” è del tutto privo di una coerenza politica e progettuale, oltre che di una legittimazione elettorale. E certo non bastano i toni accesi contro l’Europa o la rivendicazione dell’orgoglio nazionale a creare una coesione di governo e tantomeno a dare risposte ai problemi del Paese.
Inoltre, il governo Conte non può operare come governo del popolo perché, nonostante abbia ancora un consenso maggioritario nel Paese, è forzato dalle logiche partitiche ad approvare misure che non hanno il consenso della maggioranza dei cittadini e che antepongono le valutazioni di una dirigenza politica a quelle del popolo.
In sostanza, si sfrutta il consenso a favore dell’esecutivo, trainato dalla sommatoria del consenso dei due partiti di maggioranza e dall’assenza di alternative praticabili, per approvare misure di parte contrarie agli interessi nazionali e alla volontà maggioritaria, operando non come rappresentanza del popolo nel suo complesso ma come élite politica. Bisognerebbe ricordarselo quando si parla a nome del popolo e contro le élite, in sede nazionale e internazionale.