Le avvisaglie c’erano tutte. Se frena la produzione industriale le aziende fatturano meno, è un’equazione semplice semplice. E così è stato. Lo scorso dicembre, annotava l’Istat qualche giorno fa (qui l’articolo) la produzione industriale è caduta del 5,5% rispetto al dicembre 2017. L’effetto a catena non si è fatto attendere. A fine 2018 il fatturato dell’industria italiana è crollato del 7,3% su base annua segnando il minimo dal novembre del 2009 e certificando ormai il rientro dell’Italia in una fase recessiva (qui l’intervista odierna all’economista Giampaolo Galli).
Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 19 contro i 18 di dicembre 2017), il fatturato totale è calato in termini tendenziali del 7,3% a dicembre, con una discesa del 7,5% sul mercato interno e del 7% su quello estero. Male anche gli ordinativi, tra i principali indicatori della domanda. L’indice grezzo di questa voce ha infatti segnato una diminuzione tendenziale del 5,3%, derivante da diminuzioni sia per il mercato interno (-3,6%) sia per quello estero (-7,6%). La flessione di dicembre, scrive l’Istat, “riguarda tutti i settori. E quella congiunturale registrata nell’ultimo trimestre del 2018 è pressoché di pari entità sul mercato interno e quelli esteri, anche se in termini di ordinativi è il mercato estero a segnalare una prospettiva più sfavorevole”.
Tornando per un attimo al fatturato, su base annua, tutti i principali settori di attività economica hanno registrato cali tendenziali. I più rilevanti sono quelli dei mezzi di trasporto (23,6%), dell’industria farmaceutica (-13%) e dell’industria chimica (-8,5%). Si è registrata una crescita per il solo comparto dei macchinari e attrezzature (+5,4%), mentre la diminuzione più marcata si rileva per l’industria delle apparecchiature elettriche (-21,4%). Insomma, nell’attesa dei giudizi sull’affidabilità del nostro debito da parte delle principali agenzie di rating (si parte con Fitch, venerdì), i principali indicatori dicono che la nostra manifattura è in sofferenza: si produce meno e si consuma meno. Borsa e spread hanno incassato il colpo, segnando un ribasso dello 0,8% per i listini e una fiammata a 270 punti base per il differenziale Btp/Bund (ieri a 264).
C’è da dire che sulle imprese grava un peso non indifferente, quello del cuneo fiscale (differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa in termini di busta paga netta). Lo ha ricordato nella medesima mattinata segnata dai dati Istat, il Centro studi di Confindustria. “Nel confronto internazionale”, hanno scritto gli esperti di viale dell’Astronomia nelle tradizionali slide, “l’Italia ha un cuneo molto elevato, qualunque sia la retribuzione presa a riferimento. Nel caso di un lavoratore single con retribuzione media (31mila euro lordi l’anno), fatta 100 la retribuzione netta: le imposte pesano per il 32% mentre i contributi a carico del lavoratore per un altro 14%. Per quanto riguarda quelli a carico del datore, il peso si aggira intorno al 61%. Sul netto che va al lavoratore si aggiunge, quindi, il 107% di tasse e contributi”.
Confindustria fa anche un altro ragionamento. E cioè, per l’azienda che assume un lavoratore che fa domanda per il reddito di cittadinanza, dunque ricorrendo al centro per l’impiego, i contributi lato impresa sono molto alti. Fino ad arrivare a 7mila euro per una retribuzione di 3mila euro, cifra inclusiva dei 780 euro promessi dal governo.