A quanto pare, il senso della realpolitik ha vinto sul semplice sentimento identitario. A quanto pare: nessuno sarà in grado di verificare se gli ingranaggi interni della Rousseau, la rete della Casaleggio Associati, abbiano funzionato bene. Garantendo che “uno vale uno” e non favorendo le bizze di un qualche strano algoritmo in grado di orientare, fin dall’inizio, le scelte verso un fine precostituito. Interrogativo destinato a rimanere senza risposta. Radicando oppositori e sostenitori – “apocalittici” ed “integrati” – sulle rispettive inconciliabili posizioni. Comunque sia, almeno questa volta, la rete di Rousseau ha operato a favore del re di Prussia: salvando Matteo Salvini e l’intero governo a totale demerito di quei magistrati del tribunale dei ministri di Catania tentati dal grande colpo contro la politica. Che da questa vicenda, almeno per ora, escono sconfitti.
A ripercorrerne le tappe, c’è di che riflettere. L’accusa mossa nei confronti del vicepresidente del Consiglio era di quelle pesanti. Sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere: perché rivolto contro minori. Quelli trattenuti insieme agli altri (177 migranti) nel porto di Catania, nel lungo braccio di ferro con il resto dell’Europa, al fine di ottenere una loro possibile redistribuzione. Va solo la pena di aggiungere che la “Diciotti” era ed è una nave italiana, contro la quale non potevano essere sollevate le obiezioni più volte espresse nei confronti delle Ong, battenti bandiera estera, e della loro attività di salvataggio in mare. Da molti ritenuta, con quel pizzico di malizia che accompagna sempre le vicende internazionali, il terminal dei grandi traffici illegali, legati al business dell’immigrazione.
All’inizio Salvini era rimasto spiazzato dall’iniziativa della procura di Catania. E risposto a tono, via Facebook: “Facciano pure. Sono con la coscienza a posto. Gli italiani capiranno”. Reazione più politica, che istituzionale. Più istintiva – “ma come, mi faccio in quattro e questo è il ringraziamento” – che meditata, per tener conto dell‘intero spettro delle responsabilità coinvolte nell’affaire. A partire da Danilo Toninelli, cui spetta la sovrintendenza sui porti italiani, come ministro delle infrastrutture.
Terminata la fase del semplice risentimento, per quanto giustificato, la dialettica con gli altri organi dello Stato, coinvolti fin dall’inizio, è divenuta più stringente. Per rispondere alle accuse e sostenere il confronto presso la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, lo stesso Salvini aveva anticipato le linee della sua difesa in una lettera al Corriere della sera.
In essa si marcavano, con notevole efficacia, le distanze tra quella che all’inizio poteva essere sembrata solo una posizione personale. E che ora appariva invece essere la risultante di una precisa scelta di governo, assunta dal ministro dell’Interno nel pieno esercizio delle sue funzioni. Destinata, come tale, a coinvolgere ben altre responsabilità politiche. Non solo quella del ministro delle Infrastrutture, ma dello stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il caso Salvini risultava di conseguenza derubricato, da unico responsabile a corresponsabile, ed ampliata la platea dei possibili ipotetici imputati. Ipotetici: poiché questa seconda fase non è ancora iniziata. Prenderà l’avvio solo dopo il voto del Senato ed il passaggio della relativa documentazione al Tribunale dei ministri. Sarà quest’ultimo che dovrà decidere come andare avanti. Se prendere atto del voto contrario (sebbene ancora non espresso) del Senato e quindi decretare il non luogo a procedere, oppure alzare il tiro contro gli altri membri del governo. E quindi continuare la partita.
Questi sono stati i complessi avvenimenti che hanno fatto da sfondo al voto dei militanti dei 5 Stelle. Quel rapporto 60 a 40, a favore non solo di Salvini, ci può anche stare. C’era, semmai, di sorprendersi del contrario. Quindi votazione senza pathos si potrebbe dire. Consentita proprio per i suoi esiti scontati. Il problema è capire se i relativi risultati abbiano rafforzato o indebolito la leadership di Luigi Di Maio. Che nella vicenda si era speso completamente. La sua dichiarazione di correità nella vicenda Diciotti non era necessaria. A svolgere ogni possibile ruolo erano stati solo il ministro dell’Interno e quello delle Infrastrutture. E, naturalmente, il presidente del Consiglio, come artefice e garante della linea di governo.
Nonostante ciò aveva voluto essere al fianco del vicepresidente numero 2. E condividerne pienamente le responsabilità. I risultati sono stati pertanto abbastanza chiari. Circa il 40 per cento dei militanti grillini non condivide la linea del loro capo politico. Al punto da essere disposti a buttare all’aria l’intero governo. Cosa relativamente scontata in caso di un verdetto del Senato contro Salvini. È l’area degli ortodossi, come in genere sono definiti. Che hanno come avversari Giggino e Davide Casaleggio e come punti di riferimento, non sempre convergenti, Alessandro Di Battista, Roberto Fico e lo stesso Beppe Grillo. Una forza effettiva, nel magmatico mondo dei 5 stelle. Ora che Rousseau ne ha consentito il relativo censimento. Che peserà nei prossimi ed immancabili appuntamenti. E solo allora si vedrà se la scelta dell’internet – referendum sia stata una cosa saggia ai fini della tenuta del quadro politico complessivo. O solo un boomerang seppure ad effetto ritardato.