Ci sono due scorciatoie che mettono a rischio il vertice mondiale, senza precedenti nella storia della Chiesa, voluto da Papa Francesco che ha convocato a Roma tutti i presidenti della Conferenze Episcopali per determinare una nuova e più efficace lotta agli abusi sessuali. Devono ripartire sapendo cosa si deve e cosa non si deve fare, è stato detto. Ma nonostante che tutto sembri da determinarsi nell’ambito delle procedure, forse non è solo così e uscendo dal procedurale, pur importantissimo, si coglie la portata e il peso delle scorciatoie, che sono chiare ed evidenti: si chiamano “omosessualità” e “celibato”.
La loro diversità e possibile unione è molto interessante perché indica come una scorciatoia di “estremo laicismo” e una scorciatoia di “estremo dottrinalismo” possono incontrarsi, accavallarsi, unirsi in un errore comune. La prima scorciatoia individua nell’omosessualità il problema, e questo rimanda a “liberalismo”, “apertura” verso la liberazione sessuale; insomma questa scorciatoia identifica il problema con il Concilio Vaticano II e lo spirito nuovo che ha cominciato a soffiare da allora nella Chiesa. Aprirsi è stato un male, un male grave che ha determinato la diffusione di costumi libertini. Ovviamente questa scorciatoia assolve tante altre colpe o tante carenze evidenti, gravi. No, per chi la vede così il problema è tornare al rigore e vedere nell’omosessualità il vero guaio. L’altra scorciatoia invece parte da presupposti molto diversi: il male è nel celibato, è questo “anacronismo” che va superato, eliminato, perché è di qui che nascono i mali della Chiesa.
Queste due scorciatoie dimenticano troppe cose, o ne cancellano troppe. Per prima direi il guaio di fondo: il clericalismo. Se la Chiesa, dal centro romano alle varie Chiese locali, è una struttura di proprietà dei presbiteri, allora il circolo sarà chiuso, l’omertà, la compiacenza, la copertura, saranno la regole: un corpo si protegge. Ma se la Chiesa è la Chiesa del popolo di Dio allora i laici hanno diritto all’accesso, alla difesa, alla promozione delle proprie ragioni proprio come i presbiteri, che si differenziano da loro non come i docenti si differenziano dai discenti, ma semplicemente perché chiamati a svolgere un ruolo ministeriale nel culto. Il clericalismo comporta con sé un problema di potere: “Noi ordinati siamo la Chiesa, vi diciamo cosa dovete fare, come vi dovete comportare perché siamo noi la Chiesa”, e quindi esercitiamo un potere, deteniamo un potere.
La prima impostazione comporta tanti cambiamenti, in particolare nel caso dei crimini di cui parliamo, la maggior responsabilità e non la irresponsabilità dei vescovi. Se il vescovo ha la responsabilità di una diocesi è lui che deve prioritariamente rispondere delle sue decisioni, delle sue inadeguatezze e dei suoi errori, dentro la Chiesa e fuori dalla Chiesa. Ma questo sarà possibile davvero soltanto se l’idea di Chiesa non sarà un’idea clericale, se il clericalismo non creerà un meccanismo di copertura.
Passare dal clericalismo a questa nuova cultura di Chiesa di popolo e del popolo vorrebbe dire liberarsi da erronee concezioni di potere e del potere, consentendo di rimettere in discussione anche meccanismi che non sono da cancellare, ma da aggiornare, come il celibato. Se i preti ordinati non bastano più a garantire i sacramenti ai fedeli non potrebbero essere affiancati, nella disponibilità del vescovo, dai viri probati, cioè da fedeli coniugati di comprovata probità e religiosità? Se la Chiesa è del popolo di Dio e non dei presbiteri gli incarichi negli uffici parrocchiali e diocesani non dovrebbero diventare più comunemente appannaggio di laici? Quella che nascerebbe da tutto questo non sarebbe una Chiesa non autoreferente, non chiusa, non succube del suo clericalismo? La questione va vista in una prospettiva globale, cioè in prospettive diverse, come quelle di tanti paesi africani, asiatici e così via.
Quando la signora Collins, una vittima di abusi chiamata a far parte della commissione pontificia per la protezione dell’infanzia, chiese alla Congregazione per la Dottrina della Fede di ascoltare le vittime, non solo i religiosi e gli uffici diocesani, ebbe come risposta una ineccepibile manifestazione di formalismo giuridico: questo è compito delle Chiese locali. Ma se le cose stanno così e perché l’idea di Chiesa è ferma al modello superato, cioè che la Chiesa è degli ordinati.
Cambiare passo vuol dire rendersi conto di quale sia il bandolo che non è stato veramente toccato: io credo sia quello del pieno coinvolgimento nella vita della Chiesa di chi la rende tale, cioè i fedeli.