Dall’incontro di Davos, dove si è svolto il World Economic Forum, sembra che sia passato un secolo. Ed invece è trascorso solo un mese. Allora, tra le montagne svizzere, in un’intervista a Bloomberg Tv, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, aveva sprigionato tutto il suo ottimismo. “La crescita dell’Italia – aveva sospirato – potrebbe arrivare fino all’1,5% quest’anno”. Per poi aggiungere, una volta rientrato: “L’Italia ha un programma di ripresa credibile, il 2019 sarà un anno bellissimo”. Nel frattempo l’Istat certificava la recessione “tecnica”: determinata dalla doppia caduta del Pil negli ultimi due trimestri. L’indice della produzione industriale, a dicembre, (meno 5,5 per cento) subiva un crollo che non si vedeva dal 2012, appena bissato dal negativo andamento del fatturato (meno 7,3 per cento). A sua volta: il dato peggiore dal 2009.
Elementi che nessun negazionismo economico è più in grado di occultare. Se il governo può fare finta di nulla e rivolgere altrove lo sguardo, tutto il sistema di monitoraggio dell’economia italiana è già entrato in fibrillazione. Tante spie rosse che illuminano la strada che può portare alla perdizione. Sono stati in molti a scendere in campo: Organismi pubblici e privati. Divisi su molte cose, ma tutti convergenti nel dire che le iniziali previsioni governative – quelle sulla base delle quali è stata costruita la manovra di fine anno – sono solo da dimenticare. Appartengono ad un passato che non ha più relazione alcuna con gli andamenti effettivi del ciclo italiano. A sua volta condizionato malamente da una parallela congiuntura internazionale: europea ed atlantica. Il cui doppio impatto, su finanza pubblica e debito, rischia di essere micidiale.
Si è passati così dall’ottimismo di “un bellissimo 2019” alla nuova angosciosa domanda se sarà necessaria una manovra di aggiustamento dei conti. Alla necessità di avere “chiarimenti in ordine all’ipotesi di interventi correttivi rispetto al quadro di finanza pubblica per il 2019”: come recita, con piglio burocratico, l’interrogazione parlamentare, alla quale il ministro Giovanni Tria è stato chiamato a rispondere. Francesco Boccia, del Pd, come presentatore dell’interrogazione ha avuto facile gioco. Un quesito secco: “Lei esclude o meno l’ipotesi di una manovra correttiva?”. Risposta, per così dire, articolata da parte del ministro: “in merito alla domanda sull’eventuale manovra correttiva nel 2019, risulta alquanto prematuro esprimersi in tal senso”. Tutto è rinviato al prossimo Def, che dovrebbe essere presentato entro il prossimo 10 aprile. In quella sede saranno fornite le nuove previsioni ed inizierà un nuovo round con la Commissione europea, al fine di giungere ad una valutazione il più possibile condivisa.
Nel frattempo si guarda con trepidazione agli altri indicatori. Ai primi di marzo l’Istat fornirà il dato ufficiale del valore del Pil 2018. Il dato è particolarmente importante ai fini della determinazione del rapporto debito – Pil per l’anno appena trascorso. Finora sono noti solo i dati relativi alla crescita del debito in valore nominale: aumentato, negli ultimi dodici mesi, di 53,218 miliardi (dicembre 2018 – dicembre 2017). Con l’asticella che ha raggiunto i 2.316,697 miliardi. Sembrerebbe quindi, sulla scorta delle possibili conoscenze, che il rapporto debito –Pil, nel corso del 2018, invece di diminuire – come concordato a livello europeo – sia destinato ad aumentare rispetto all’anno precedente. Fosse così, non sarebbe un buon viatico.
Nel 2018 il tasso di crescita è stato pari all’1 per cento: seppure grazie ai due giorni lavorativi in più rispetto all’anno precedente. Altrimenti si sarebbe fermato allo 0,8 per cento. L’inflazione è, più o meno, cresciuta, secondo le previsioni. Non dovrebbero verificarsi pertanto ulteriori brutte sorprese. Il peggioramento del rapporto debito – Pil sarebbe esclusiva conseguenza del cattivo andamento degli spread. Quella differenza di oltre 100 base, rispetto alla prima metà dell’anno, ha comportato un consistente aumento dei costi legati al rinnovo dei titoli in scadenza. Che si è riflesso in una più accentuata dinamica dei valori complessivi.
Ma che succederà nel 2019? Anno in cui le previsioni di crescita sono pari a meno della metà di quelle stimate dal governo? Una forte compressione del numeratore, dovuta sia alla minor crescita reale che al tasso relativo d’inflazione, senza minimamente voler considerare il riflesso di queste variabili sugli spread, avrebbe un impatto negativo sul rapporto debito – Pil. Quest’ultimo, inevitabilmente, tenderebbe ad aumentare, riaccendendo dubbi sulla sua solvibilità complessiva. Rischio che metterebbe la stessa Commissione europea con le spalle al muro, costringendola ad intervenire. E pretendere il rispetto degli impegni assunti. Nel “Documento programmatico di bilancio 2019”, la discesa del rapporto debito/Pil era “attesa” per un valore “pari a 0,3 punti quest’anno, e quindi 0,9 punti nel 2019, 1,9 nel 2020 e 1,3 nel 2021.” Il rapporto sarebbe dovuto scendere “dal 131,2 per cento del 2017 al 126,7 nel 2021“. Se dovesse, invece, verificarsi il contrario, la manovra correttiva, per evitare l’avvio di una procedura d’infrazione, sarebbe inevitabile.
Ma con quali effetti? Questo è un secondo aspetto che va tenuto a mente. Se la crisi del debito dipende, soprattutto, dalla mancata crescita, una manovra correttiva avrebbe un effetto pro-ciclico assolutamente devastante. Comprimerebbe ulteriormente il tasso di sviluppo dell’economia, farebbe diminuire il prodotto interno e quindi, alla fine del percorso, ci ritroveremmo, come avvenuto in questi ultimi anni, con un debito pubblico maggiore ed un Paese ancora più debilitato. Insomma l’Italia rischia di rimanere prigioniera di una vera e propria “trappola” che non le offre facili possibili vie d’uscita. Ma solo il loop perverso di un “circolo vizioso”. Forse è bene non farsi prendere da angosce preventive. Ma altrettanto poco saggio sarebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia.