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Giovani, iper istruiti ma sottodimensionati. Il rapporto Istat sul lavoro secondo Monducci

Sono i giovani super istruiti ma sottodimensionati la vera sorpresa del Rapporto sul “Mercato del Lavoro” promosso dal ministero del Lavoro insieme a Istat, Inps, Inail e Anpal che offre un quadro d’insieme ragionato degli ultimi 10 anni delle politiche del lavoro in Italia. Gli occupati sovraistruiti sono 5 milioni 569mila, il 24,2% del totale e il 35% degli occupati tra diplomati e laureati. Solo che spesso “si accontentano” di fare un lavoro precario piuttosto che stare a casa sul divano. Una sorta di effetto “Smetto quando voglio” per riprendere il titolo di un film che raccontava come dei ricercatori universitari pur di lavorare si prestavano a fare i benzinai o i meccanici piuttosto che emergere nelle discipline in cui eccellevano. Ne parliamo con Roberto Monducci, direttore del Dipartimento per la produzione statistica dell’Istat, struttura responsabile della produzione dell’informazione statistica di carattere economico e sociale, delle attività di previsione economica e delle valutazione delle policy.

Possiamo dire che si è bloccato l’ascensore sociale?

I giovani per anni sono stati in una situazione di estrema penalizzazione, con le politiche previdenziali e pensionistiche che hanno determinato un blocco. Adesso c’è stato un recupero dei primi ingressi anche se rispetto ad un’offerta qualificata spesso i giovani accettano lavori sottopagati e lontani dal loro percorso formativo e di studi.

Con il rischio che chi è precario resta in questa situazione…

Almeno per i primi due anni è così. Dopo un lavoro si può trasformare anche in tempo indeterminato, bisogna vedere se è proprio quello che quel giovane voleva fare, però.

È un problema di qualità del lavoro…

C’è un gap tra il potenziale professionale dei giovani che entrano sul mercato del lavoro e sul come vengono utilizzati. In parte deriva proprio da problemi contrattuali e una delle implicazioni di questo Rapporto dovrebbe essere proprio una riflessione sulla contrattazione, perché è evidente che se inserisci un giovane al primo impiego con mansioni sottodimensionate non stai operando al meglio. Sindacati e governo dovrebbero riflettere su questo aspetto. Poi c’è il gap al contrario.

Cioè?

Se sui giovani il problema è la modalità d’ingresso, sugli adulti che già lavorano si registra il quadro inverso: sono sotto istruiti anche per le mansioni che spesso svolgono. La transizione digitale che è in atto in questi anni ci induce a pensare che questi aspetti debbano essere estremante vigilati.

Anche perché poi si registra il fenomeno dei laureati che abbandonano l’Italia, un fenomeno in costante crescita…

Esattamente. Tra i dottori di ricerca del 2014 occupati, il 18,8% vive e lavora all’estero a quattro anni dal conseguimento del titolo. Uno su cinque, quindi, lascia l’Italia per lavorare all’estero. Si potrebbe dire che in un’economia globale un’esperienza internazionale di lavoro può far bene, in questo caso però loro prendono il dottorato e vanno fuori, e non si sa se mai rientreranno. C’è un aumento di 4 punti percentuali di chi va fuori, dal 14,7 del 2010 al 18,8%, è un trend in crescita.

Eppure dal vostro Rapporto emerge che nonostante la crisi il mercato del lavoro in Italia ha tenuto, come se lo spiega?

C’è stato un aumento dell’incidenza delle uscite, questo è innegabile. Un aumento che ci si dovrebbe aspettare in periodi recessivi, quando non c’è domanda, ma il fatto che è aumentata l’incidenza di chi va fuori in una situazione di forte recupero del mercato del lavoro vuol dire che nel nostro Paese non c’è domanda qualificata.

E quindi i giovani o si accontentano del lavoro o emigrano?

Più o meno. Quel che è certo è che bisogna avere più attenzione ai giovani per farli entrare nel mercato del lavoro e per valorizzare le loro competenze. Questo è uno dei messaggi che esce dal nostro Rapporto sul lavoro.



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