Ci volevano le due elezioni sarde ed abruzzesi per determinare un primo sussulto nelle certezze, fino a ieri, granitiche dei 5 Stelle. Con una reazione diversa, ma simmetrica. La prima il preannuncio di Luigi Di Maio che presto il Movimento (se abbiamo capito bene) si trasformerà in un partito. Auguri. E l’intervista, ben più pensosa, del presidente del consiglio Giuseppe Conte sui temi dell’economia. Che ipotizza, con una forte sottolineatura, la messa a punto di un suo personalissimo metodo – il metodo Conte per l’appunto – che “prevede tre elementi: studio attento dei dossier, dialogo con gli attori di volta in volta coinvolti dalle decisioni, confronto franco con i ministri al fine di pervenire alla soluzione che garantisca il massimo soddisfacimento degli interessi generali”.
Sembrerebbe una minestra riscaldata, rispetto alle normali procedure di qualsiasi governo, se non si trasformasse in una presa di distanza dalle vaghezze ideologiche del Movimento. Quelle “dell’uno vale uno”, tanto per capirci, che fa da pendant allo sradicamento della democrazia parlamentare. Soppiantata da quella diretta, in cui i corpi intermedi della società, che della prima sono la linfa vitale, non hanno diritto di cittadinanza. Ma diventano pure e semplici lobbies, da estromettere dal circuito decisionale. Cambiamento non da poco: come si vede. Anche se, almeno al momento, resta un semplice enunciato che dovrà essere poi supportato da atti conseguenti.
Lungo è l’elenco presentato all’insegna dello slogan: “stiamo lavorando”. Che sembra essere un vero e proprio brand di chiunque abbia tra i 5 Stelle responsabilità politico-amministrative. Da quanto emerge nella lunga intervista al Sole, sembrerebbe che, ormai, il primo semestre dell’anno sia compromesso. Quel 2019 “anno bellissimo per l’economia” viene reinterpretato da Conte come una semplice “battuta” contro previsioni eccessivamente pessimistiche. “Stiamo lavorando con la massima determinazione” – precisa, infatti il presidente – “affinché il 2019, almeno nel secondo semestre, si realizzi per l’Italia nel segno della crescita e della stabilità sociale”.
Quindi nessuna manovra correttiva, come continuamente si sente ripetere in giro. Tanto meno patrimoniali o aumenti dell’imposta di successione. Quei 2 miliardi già previsti a bilancio, come cuscinetto per far fronte ad un’eventuale peggioramento dei conti pubblici, dovrebbero essere sufficienti per scongiurare qualsiasi eventualità negativa.
Ed allora meglio “non parlare del nulla”, come dice Matteo Salvini, e concentrarsi sulle cose che sono indispensabili ai fini del rilancio produttivo. Con l’obiettivo di creare un’autostrada “a tre corsie per la crescita: investimenti, innovazione e semplificazione.” Per mettere a “disposizione di un guidatore una Ferrari”. Questo il simbolismo immaginifico. Gli strumenti sono quelli che dovrebbero garantire lo sblocco dei cantieri: la creazione di una struttura di missione con il compito di coordinare la realizzazione del piano. La riforma del codice degli appalti da conseguire con una legge delega, quindi i necessari decreti legislativi, integrati da eventuali decreti legge per la normativa più urgente, infine la realizzazione di una centrale per la progettazione per coprire uno degli aspetti più carenti dell’attuale situazione. Il tutto al fine di accelerare la realizzazione delle relative opere, da tempo finanziate sia a livello locale che nazionale. Tutto bene, quindi? Sarà la prova del budino a confermare se la tanta carne messa sul fuoco, alla fine, produrrà gli effetti annunciati.
Nel frattempo, tuttavia, resta il nodo Tav, ancora non risolto. E che invece dovrebbe essere la cartina di tornasole di una ritrovata sintonia con le normali regole del vivere civile, dopo tante chiacchiere sul “politicamente corretto”. Alla domanda, Conte risponde con un notevole imbarazzo. Del resto non poteva essere altrimenti. Nessun accenno all’importanza di un’opera lunga oltre 2.000 chilometri – da Lisbona a Kiev – che si rischia di bloccare definitivamente. Si cerca, invece di minimizzare: “il progetto Tav corrisponde a una percentuale tutto sommato contenuta di tutte le opere che sono in corso di realizzazione”. Che è darsi la zappa sui piedi. Per non sostenere una spesa “tutto sommato contenuta” si corre il rischio di spingere gli altri Paesi interessati a spostare l’intero asse del tracciato verso Nord, escludendo l’Italia dai relativi benefici. Con una dura penalizzazione del centro propulsivo del Paese: quel Nord-est che ne rappresenta forse l’unico polmone produttivo. Il segno evidente di una contraddizione che persiste. Che lo stesso Conte non è in grado di superare, non avendo la piena titolarità dell’indirizzo politico ed amministrativo del governo. Secondo quanto previsto dall’articolo 95 della Costituzione italiana.
Ha avuto quindi buon gioco Giovanni Tria, ministro dell’Economia, nel ricordare l’importanza che ha nel nostro ordinamento giuridico il rispetto del principio dell’affidamento. Cambiare retroattivamente le regole, com’è avvenuto per la Tav ma non solo (si pensi solo alla vendetta dei 5 Stelle contro i cosiddetti pensionati d’oro), non può che produrre effetti negativi sui futuri investimenti. Specie dall’estero nessuno si sentirà garantito, nell’investire in Italia. Sarà infatti sufficiente una maggioranza parlamentare vogliosa di “cambiamenti” per modificare ex post le regole del gioco e penalizzare i terzi in buona fede. Oggi non siamo ancora a questo punto. Per fortuna esiste ancora una Corte costituzionale che è in grado di impedire una simile deriva. Ma certo è che il pericolo permane. Ed esso traspare ancora evidente nel percorso, ancora incompiuto, del premier.