Attenti a non utilizzare il country report della Commissione europea come una clava contro l’Italia. Non perché le preoccupazioni in esso contenute non siano condivisibili. Basta guardare a tutti gli indicatori disponibili per averne contezza. Ma per evitare di aderire, in modo acritico, ad uno schema analitico, che non entra in profondità nella crisi italiana. Rimane, invece, all’interno di un cliché fin troppo generico ed universalistico. Che nega in radice la necessità di misurarsi, come dicevano i classici, con “la logica specifica dell’oggetto specifico”.
L’incipit stesso della Commissione, se si esclude il riferimento all’eccesso di debito, è indicativo della metodologia seguita. Una descrizione che può essere applicata a qualsiasi Paese europeo. “Di fronte ad un rallentamento del quadro complessivo – è scritto nel report – affrontare gli squilibri macroeconomici per l’Italia rimane cruciale.” Ma lo stesso può dirsi per la Francia o la Spagna. “In particolare, – prosegue – la riduzione dell’alto rapporto del debito richiede una politica macroeconomica orientata verso la stabilità ed una politica fiscale conseguente affinché possano entrambe contribuire, a far crescere la produttività ed il potenziale di sviluppo grazie a maggiori investimenti ed ambiziose riforme strutturali. Questi sforzi sono anche la chiave per ottenere il consenso del mercato.”
Se ne può, forse, dubitare? Ma in che cosa consistono gli squilibri macroeconomici dell’Italia, che sono cosa distinta (anche se collegata) dalle dinamiche esclusivamente finanziarie: deficit e debito pubblico? Imputato numero uno, per la Commissione, è la bassa produttività. Che, nelle pagine interne del report, è adeguatamente analizzata. La bassa crescita italiana è sostanzialmente attribuita a questo elemento. Senza alcun possibile accenno ad eventuali concause. Il tutto basato, quasi esclusivamente, su un’evidenza statistica che non può essere, tuttavia, risolutiva, nel cogliere gli arcani che regolano nel profondo il metabolismo sociale italiano.
Non è, infatti, obbligatorio inseguire il consumismo spinto di altre società. Ad esempio quello americano. Vi può essere, al contrario, una sobrietà di comportamenti che rappresenta un diverso modo d’essere. Una diversa visione della vita: slow food e non solo fast food. L’importanza, in entrambi i casi, è la coerenza. La sobrietà che si sposa con un ritmo meno intenso dello sviluppo produttivo. Senza arrivare, ovviamente, agli eccessi della cosiddetta “decrescita felice”. A questo parametro più generale deve essere correlato il grado di sviluppo della produttività. Equazione che, in Italia, trova una sua corretta soluzione. E’ la stessa Commissione a riconoscere implicitamente che questo gap non esiste: considerato il forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti: una percentuale pari a circa il 2,5 per cento del Pil, tanto per il 2019 che per il 2020.
In genere, se non si è competitivi, il mercato interno è dominato dalle importazioni di beni dall’estero. Al tempo stesso le esportazioni hanno difficoltà ad imporsi negli altri Paesi. Il risultato finale è l’esatto contrario di quanto avviene in Italia. Nel 2011, a riprova di quanto detto, la minaccia di default della Grecia, non fu dovuta solo agli eccessi di una finanza allegra, ma ad un deficit nei conti con l’estero che, dal 2007 in poi, aveva superato abbondantemente il 10 per cento del Pil. Gli italiani, al di là degli stereotipi che li riguardano, non sono allegre cicale, ma un popolo di formiche, che vive consumando poco e risparmiando tanto. Il risultato, a partire dal 2011, è stato un avanzo con l’estero continuo e persistente. Che si è tradotto in un eccesso di risparmio, che non trovando forme d’impiego all’interno, è defluito verso l’estero, soprattutto in investimenti di portafoglio. Che hanno fatto più la gioia dei grandi broker che non quella dei singoli risparmiatori.
Se si prescinde dalla retorica indotta dai processi di globalizzazione, il puzzle italiano non si risolve, pertanto, con più accentuate dosi di austerità. Ma puntando soprattutto sulla crescita della domanda interna, visto che quella estera, comunque in espansione, non rappresenta una variabile, ma un dato del problema. Domanda interna che può crescere fino a riassorbire l’eccesso di surplus nei confronti dell’estero. Come? Grazie ad un aumento dell’occupazione, delle retribuzioni, e degli investimenti. Ma se queste spinte sono insufficienti, ecco allora che l’aumento del deficit pubblico, può rappresentare il necessario volano, in grado di rimettere in moto l’intera economia. Insomma: il deficit pubblico, se gestito correttamente, è l’elemento che regola il ciclo economico. Esso è destinato a crescere se i conti con l’estero sono attivi. Si contrae o diventa addirittura positivo, se si è in presenza di un deficit delle partite correnti. Comunque nulla a che vedere con le regole fisse del fiscal compact, che rappresentano la negazione di qualsiasi corretta regolamentazione.
Vecchi schemi keynesiani: si potrebbe dire. Che vanno, tuttavia, aggiornati per tener conto delle logiche pervasive della globalizzazione, ma non certo rimossi, per cedere il campo ai nuovi teorici di un pensiero unico. In questo il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, ha facile gioco quando rivendica la solidità dei fondamentali dell’economia italiana, proprio in relazione al forte attivo delle sue partite correnti, che offrono, comunque, un cuscinetto di riserva cui ricorrere in caso di emergenza.
Ubbie accademiche? Scontri tra scuole di pensiero diverse? Certamente, ma non solo. Esiste un riflesso pratico immediato di queste diverse impostazioni. Secondo la Commissione europea, l’Italia è già fuori legge. Il suo debito pubblico in rapporto al Pil è già aumentato, invece di diminuire, nel corso del 2018. E tutto lascia presumere che nel 2019 andrà peggio. È quindi probabile che subito dopo le elezioni europee, come più volte minacciato, scatti la “procedura d’infrazione”, per la violazione della “regola del debito”.
Cosa dovrebbe fare, allora, il governo italiano? Ricorrere ad una nuova manovra correttiva? Vale a dire ad agire in senso pro-ciclico: riducendo ulteriormente il peso della domanda interna, quindi comprimendo ulteriormente il Pil. E, attraverso questa via, come avvenuto dal 2011 in poi, far crescere ulteriormente il rapporto debito-Pil.
Contraddizioni evidenti di una “trappola” in cui porta la vecchia ortodossia e di uno schema interpretativo, quale quello finora seguito, che non regge alla prova del budino. Metterlo in discussione, per ricercare le giuste chiavi di una diversa politica economica, è il grande tema su cui tutti dovrebbero esercitarsi, a prescindere, una volta tanto, da più antiche o un po’ desuete certezze politiche. Che non servono a far ritrovare la giusta via che può portare al superamento di questa lunga crisi.