Il 4 febbraio di quest’anno Papa Francesco e l’Imam dell’università islamica di al Azhar, Ahmad al-Tayyeb, hanno firmato un documento storico, una dichiarazione congiunta sulla fratellanza umana. Un documento di eccezionale rilievo storico e culturale, che ponendo l’urgenza di una piena e uguale cittadinanza per tutti anche nei Paesi a maggioranza islamica archivia secoli di incomprensioni e discriminazioni. Un documento avulso dalla realtà segnata dal terrorismo? Piuttosto si direbbe un documento calato nella realtà araba, molto più in sintonia con la realtà sociale di quel mondo rispetto a tanta politica.
I clamorosi eventi algerini e sudanesi, una sorta di nuova “primavera araba”, lo dimostrano di tutta evidenza. Gli algerini, nonostante il loro devastante passato, non accettano più il regime cleptocratico e gerontocratico dei generali che ricandidano per la quinta volta consecutiva l’ultraottantenne Boutaflika alla guida del Paese, per quanto colpito da un grave ictus. Analogamente i sudanesi non accettano più il regime tirannico di Omar al Bashir, incriminato dal tribunale dell’Aja per genocidio. È interessante notare come questi due regimi siano espressione dei “presunti opposti” del confronto arabo: il regime sudanese vicino ai sauditi, i tradizionalisti, quello algerino militare e “laico”, opposto ai tradizionalisti. Ma questi due campi, che per comodità si possono definire panislamista il primo e panarabo il secondo, esprimono una bancarotta politica che ha ridotto il mondo arabo in condizioni non lontane da quelle che solo gli storici ricordano, ai tempi delle invasioni dei mongoli. Due ideologie fallite che i popoli sfidano portando milioni di persone in piazza, ad Algeri come a Khartoum. E nel nome di cosa? Nel nome della cittadinanza, nel nome cioè della trasformazione di stati che hanno cancellato la politica in Paesi moderni, dove l’uomo è un individuo rispettato in quanto tale e in quanto persona. Bisognerà ricostruire la politica per interpretare in termini nuovi questa nuova primavera di Khartoum e di Algeri, proseguimento di quella di Tunisi, del Cairo, di Sanaa, di Damasco. Ma la sua base è nella dichiarazione firmata da Papa Francesco e dall’Imam al Tayyeb, appena un mese fa.
Ed esattamente un mese dopo musulmani e cristiani ne torneranno a parlare a Roma, nel primo confronto pubblico sulla dichiarazione. Promosso dal Centro Astalli, la sezione italiana del Jesuit Refugee Service, presso la Chiesa del Caravita, nel centro di Roma, in Via del Caravita, l’incontro vedrà a confronto il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, e l’imam di Firenze, Elizir Ezzeddin, presidente emerito dell’Ucoii. Ma, con altri importanti protagonisti di questo processo, come la professoressa Paola Pizzo, della Comunità di Sant’Egidio, ci sarà anche, fatto inusuale, un leader politico del Medio Oriente, l’ex deputato libanese Fares Souaid, oggi animatore del centro per il dialogo “Madonna della Montagna”, quella montagna che accanto alla condivisa Beirut è la storia complessa del Libano cristiano, ma anche sunnita, sciita, druso. Sarà l’occasione per capire quanto questa dichiarazione offra un terreno reale a musulmani e cristiani non solo nel Medio Oriente per superare ideologie fallite nel mondo arabo e quello scontro di civiltà che tanto convince.
Tra i promotori dell’incontro anche l’Associazione giornalisti amici di padre Dall’Oglio, quel padre Dall’Oglio che forse nel 2013, quando fu eletto papa Jorge Mario Bergoglio, e lui venne sequestrato, aveva intravisto questa dichiarazione, commentando così l’elezione del nuovo Pontefice: “Il papa argentino ha scelto il nome di Francesco. Ne sono infinitamente commosso, perché Francesco significa il rinnovamento evangelico della Chiesa nell’amore della santa povertà, ma anche lo spirito ecumenico di Assisi, la preghiera delle religioni per la pace, inaugurata nel 1986 da Giovanni Paolo II. A un livello più profondo evoca la visita del Poverello al sultano musulmano a Damietta, sul fronte della guerra crociata. Un incontro di cortesia, di riconoscimento reciproco in alternativa alla guerra”. E per firmare questa dichiarazione il papa argentino è andato nella penisola arabica, ottocento anni dopo Damietta.