Si è ricordato, giustamente, agli inizi di quest’anno il centenario della fondazione del Partito popolare italiano, avvenuta il 18 gennaio 1919. E, naturalmente, abbastanza, ma non come ci si attendeva, si è rievocata la figura dell’artefice di quell’importante evento che praticamente immise i cattolici pienamente e legittimamente nella vita politica italiana dopo le note vicende risorgimentali e post- risorgimentali che segnarono la separazione radicale tra lo Stato e la Chiesa: don Luigi Sturzo.
A sessantant’anni dalla sua morte, avvenuta l’8 agosto 1959 a Roma, all’età di ottantasei anni – è stato dichiarato servo di Dio e la sua causa di beatificazione è in corso – ci sembra giusto ricordare il sacerdote di Caltagirone, riconsiderando la sua attività politica nel dopoguerra, quando rientrò in Italia dopo il lungo esilio dovuto all’opposizione al fascismo, per riprendere il suo posto che, come lui stesso ebbe modo di sperimentare, non poteva che essere marginale nella nuova Italia e nel rinato partito cattolico, la Democrazia cristiana. Eppure la sua “modernità”, al di là dei meriti che gli vennero riconosciuti, culminati con la nomina a senatore a vita da parte del presidente Luigi Einaudi, è proprio in quell’azione intelligente e quasi solitaria di innovatore del sistema politico in contrapposizione agli antichi vizi che avevano caratterizzato l’Italia pre-fascista.
IL “SECONDO STURZO”
Per qualcuno, soprattutto all’interno del suo mondo, il “secondo Sturzo” fu un disastro. Ma nessuno può oggi disconoscergli il merito di aver saputo antivedere la crisi del sistema che già negli anni Cinquanta si palesava.
L’inquieto sacerdote, infatti, è stato tra i più irriducibili negatori di quell’unità politica dei cattolici sulla quale costruì le sue fortune la Dc. Sturzo disse a Gabriele De Rosa: “Io non mi proponevo di realizzare l’unità politica dei cattolici. La mia fu soltanto una corrente di cattolici che fondò un partito nel quale potevano militare anche i non cattolici. A me non interessava che fra i socialisti, i liberali, ci fossero cattolici. La Democrazia cristiana di oggi si è invece posta, in quanto partito, il problema dell’unità politica dei cattolici… “. Se lo pose, aggiungiamo, per evitare lo “scivolamento” a Destra del mondo cattolico, dove c’era soprattutto il Msi pronto a recepire ed interpretare al meglio le esigenze del solidarismo non assistenzialista e a dare spazio ai bisogni spirituali per le indiscutibili e sempre rivendicate aperture al trascendente connaturate alla sua tradizione culturale.
LA DC E IL SUO POSTO AL CENTRO
Sul terreno più squisitamente politico, le idee di Sturzo, nel dopoguerra, non potevano coincidere con quelle del suo partito di riferimento. Prova ne sia l’interpretazione data da De Gasperi delle elezioni amministrative capitoline nel maggio 1952. Si trattava allora di varare un “listone” composto da Dc, liberali, socialdemocratici, repubblicani, monarchici e missini per la conquista del Campidoglio, in opposizione ad una lista civica di sinistra capeggiata da Francesco Saverio Nitti. Fautore dell’operazione, che fallì per l’intransigenza di De Gasperi, il quale già guardava a sinistra e l’ostilità cieca dei partiti laici di centro, era Pio XII. Sturzo la condivideva in pieno, tanto che sette anni dopo, sul Giornale d’Italia, scrisse: “Ho tollerato in silenzio, fino ad oggi, l’insinuazione circa l’operazione Sturzo perché sono abituato ad assumermi le mie responsabilità; per parlarne ho preso l’occasione della intesa leale di Segni con le destre, a sette anni di distanza, proprio per far capire a coloro che non vogliono capire, servi sciocchi di Saragat e di Nenni, la necessita che la Dc riprenda il suo posto di Centro senza alcun complesso di inferiorità, lo stesso che condusse Zoli a rifiutare i voti missini, per poi riprenderli perché il Presidente della Repubblica li reputava voti validi: sfido io; si trattava di voti dati da eletti dal popolo e non degli scugnizzi di Napoli o dei barboni di Milano, né dei beceri di Firenze”.
AVVERSIONE ALLO STATALISMO E ALLA PARTITOCRAZIA
Sturzo esercitò il suo ruolo di critico della Repubblica si andava consolidando, come assertore di un antistatalismo che lo pose in conflitto con il suo mondo, non meno che con la sinistra. In effetti, quanti nel campo delle forze della Prima Repubblica hanno finto di tornare a Sturzo hanno ignorato, volutamente, per motivi diversi ma a ben vedere convergenti, i capisaldi del suo pensiero politico in questo dopoguerra: l’ avversione allo statalismo e di conseguenza alla partitocrazia.
Esempio più eloquente e paradigmatico di statalismo per Sturzo era l’opera che andava svolgendo Enrico Mattei, il padre-padrone dell’Eni. Ha ricordato anni fa Giuseppe Palladino, l’economista cattolico diventato negli ultimi anni di vita di Sturzo suo amico e confidente quasi esclusivo, che il fondatore del Partito popolare gli spiegava come “Mattei, usando il denaro pubblico per la corruzione di uomini politici e dei partiti, stava disgregando moralmente ed idealmente la democrazia italiana. Mi faceva leggere anche i suoi articoli prima di mandarli al Giornale d’Italia; ed erano talmente polemici nei confronti del presidente dell’Eni che certe volte mi autorizzava a cancellare una o più righe dell’articolo”.
Mattei, nella seconda meta degli anni Cinquanta, tirò fuori circa tre milioni di lire, una cifra considerevole a quel tempo, e li diede ad Albertino Marcora per pubblicare una rivista che facesse da laboratorio alla giovane e rampante sinistra democristiana che si chiamò Base. La corrente, nelle intenzioni del presidente dell’Eni, doveva sostanzialmente offrire copertura politica ai suoi traffici. Sturzo si batté addirittura contro la legge istitutiva dell’Ente e stigmatizzò il fatto che Mattei fosse contemporaneamente responsabile dell’Eni e parlamentare. “Non si può essere – esclamò in Senato – controllori e tutori del denaro pubblico e insieme, spesso, sperperatore dello stesso”.
STATALISMO COME PERVERSIONE DELL’IDEA DI STATO
Sturzo guardava lontano: contrario all’idea dello Stato-padrone, sosteneva che lo Stato rettamente inteso è un ordine indispensabile al vivere civile e quanto più lo Stato è forte e giusto, tanto più la convivenza civile viene assicurata. Lo statalismo, invece, è una perversione dell’idea di Stato in quanto distruttore di ogni ordine istituzionale e di ogni morale amministrativa. Perciò lo statalismo non è in favore dello Stato, ma contro di esso, mentre la partitocrazia è il fenomeno più appariscente della malattia statalista.
Non negava Sturzo, l’intervento statale in determinati casi, ma l’interventismo generalizzato. Non discuteva la direttiva dello Stato, ma il dirigismo. Non avversava gli enti statali, ma la statizzazione dell’economia. “Nel campo economico – scriveva – il 20 novembre 1952 sul Giornale d’Italia possiamo affermare che nessun altro paese libero abbia creato tanti vincolismi all’iniziativa privata come I’Italia; e per controbilanciare, in nessun paese libero la formazione monopolista, sia privata che pubblica, e il relativo parassitismo che ne deriva, sia cosi sviluppata come in Italia. L’errore dell’economia a mezzadria pubblica privata porta a simili conseguenze; il controllo dello Stato o la sua partecipazione attiva nell’economia si estende e si generalizza, dando luogo per ripercussione ai comodi compromessi del consumatore o del contribuente”. E aggiungeva: “Invoca lo Stato come regolatore della vita economica di un paese, chi non comprende che gli effetti principali saranno la burocratizzazione dell’economia e relativa paralisi funzionale e una sempre crescente diminuzione di libertà anche nel campo politico, le cui forme normali elettorali, parlamentari e governative verrebbero svuotate di contenuto e di responsabilità”. La conclusione del processo, secondo Sturzo, era la bolscevizzazione, “con l’idea di togliere alla vita economica, anzi, a tutta la vita, il senso del rischio nel volere trasferire tutti i rischi, attraverso lo Stato, sull’intera comunità”. In questo modo, concludeva Sturzo, “stiamo abbandonando a poco a poco l’economia di mercato, che resta efficiente nel campo dei piccoli affari del ceto commerciante, industriale ed artigiano, ma non più nel campo dei grandi affari e delle grandi aziende che sanno a priori di non pater fallire”. Sturzo era consapevole di maneggiare materiale incandescente e non nascondeva al suo partito gli effetti dell’interventismo statale. Ma non veniva ascoltato. La Dc preparava l’apertura a sinistra: due concezioni stataliste si sarebbero incontrate nel segno della demagogia e dello sperpero delle risorse: sappiamo, purtroppo, com’è finita. La Prima Repubblica è stata travolta anche da questo immondo connubio.
LA LOTTA CONTRO LE “MALE BESTIE”
Sempre sul Giornale d’Italia, ma in data 23 gennaio 1959, Sturzo scendeva nel concreto, additando al pubblico ludibrio una delle più vergognose “male bestie” che aveva preso a combattere. Scriveva: “Un esempio dello statalismo ci capita sottocchio. Aumento degli stipendi degli impiegati e corrispondente aumento delle tasse. Oggi, che può dirsi tassata anche l’aria che si respira (Sturzo scriveva più sessant’anni fa, poco prima della morte!, ndr), non ha importanza quale ne sia l’aumento fiscale, tutte le tasse si ripercuotono sui prezzi. Siano piccoli o grandi aumenti, dai francobolli ai telefoni; dal costo del denaro ai prodotti di mercato, si vedrà la inutilità finale di tutti gli aumenti di tasse e stipendi che si elideranno, dando luogo, fra qualche tempo, a novelle richieste di aumenti salariali, nuovi scioperi, nuovi atti di forza della massa e nuovo cedimento del potere pubblico, e con diminuzione del potere di acquisto della nostra moneta”.
Le conseguenze nefaste della più che quarantennale pratica statalista le scontiamo nella crisi economica che ci attanaglia, nella crescente disoccupazione, nella dilatazione del debito pubblico, nell’improduttività di numerose aziende puramente assistite, nel forsennato ricorso alla cassa integrazione, nell’insopportabile pressione fiscale. Su tutto questo, naturalmente, ha prosperato la partitocrazia, l’altra “mala bestia” di Sturzo.
L’OCCUPAZIONE DELLO STATO DA PARTE DEI PARTITI
Il fondatore del Partito popolare si applicò in modo quasi maniacale, per tutti gli anni Cinquanta, a dimostrare come ed in quale misura i partiti politici, interpretando estensivamente il dettato costituzionale, avessero proceduto ad una sistematica occupazione dello Stato, fino a sostituirsi ad esso prendendone addirittura le funzioni.
Sturzo sosteneva che la pratica partitocratica non nasceva comunque nel dopoguerra. “In Italia – osservava – i partiti, come tali, fecero entrata ufficiale nella legislazione quando nel luglio 1920 i vecchi “uffici” della Camera dei deputati vennero trasformati nei gruppi parlamentari e fu data all’ufficio di presidenza la facoltà di accertamento se un gruppo inferiore a dieci deputati rappresentasse o no “un partito organizzato nel Paese” (art. I). Con l’istituzione di Commissioni permanenti a base di membri designati dai gruppi fu ancora aggravata l’ingerenza dei partiti, con danno del funzionamento della Camera. Da allora ad oggi, l’ingerenza dei partiti nei gruppi parlamentari, e per mezzo dei direttivi dei gruppi nella funzionalità del Parlamento, è stata ancora maggiore”. Riflettendo sulla posizione del partito politico nella Costituzione repubblicana, ed in particolare sull’articolo 67, Sturzo rilevava che il partito “ha per fine di concorrere a determinare la politica nazionale, tale concorso è attuato con metodo democratico; mentre i membri del Parlamento, pur eletti con l’organizzazione e l’ausilio dei partiti, rappresentano come tali non il partito ma la nazione ed esercitano il proprio ufficio senza vincolo di mandato. Né l’elettorato che sceglie, né il partito che ne aiuta la scelta, può vincolare gli eletti a deputati e senatori ad una predeterminata linea di condotta, perché in tal caso essi rappresenterebbero una frazione della propria circoscrizione elettorale ovvero un partito cioè una sezione di cittadini (spesso assai esigua) al quale han dato la propria adesione”.
Il Parlamento, dunque, per Sturzo non deve essere soggetto ad alcuna ingerenza partitica. Pretesa un po’ ingenua dal momento che la Costituzione, all’articolo 49, riconosce ai soli partiti la facoltà di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
PARTITOCRAZIA, LA MALATTIA CHE MINA LA DEMOCRAZIA
Occorrevano ed occorrono, dunque, dei vincoli e dei limiti al potere di ingerenza. Chi ha detto che i partiti devono nominare presidenti e membri di enti pubblici, devono avere le mani in pasta in banche, ospedali, aziende per il turismo, municipalizzate, industrie, ecc.? È questo che si intende per determinazione della politica nazionale? Evidentemente no. Eppure i partiti, si sono comportati proprio come non avrebbero dovuto. Osservava Sturzo: “Si dirà: che cosa deve fare un partito se non si occupa degli affari del governo, del Parlamento, delle amministrazioni locali, delle nomine dei propri membri a posti di comando, e così di seguito? Tutta la finezza e l’arte politica dei dirigenti dei partiti sta proprio in ciò: di occuparsi di tutte le cose sopra elencate, e di molte altre ancora, senza invadere il campo dei poteri e delle competenze del governo, del Parlamento, delle amministrazioni locali e delle proprie sezioni ed organismi periferici. Il compito specifico dei partiti politici in democrazia è quello di organizzare il corpo elettorale; prepararlo ed educarlo alla vita pubblica; fare da intermediario fra gli organismi del potere e dell’amministrazione e il cittadino; aiutarlo nella difesa dei propri diritti, indurlo allo scrupoloso adempimento dei doveri pubblici; correggerne l’istinto demagogico ed indirizzare al servizio pubblico la impulsiva passionalità delle masse”.
Riassumendo, per Sturzo la partitocrazia e la malattia che mina la democrazia. L’errore dei partiti è quello di volersi ingerire nel governo e nell’amministrazione del Paese. Dal momento che la prospettiva di un partito è ristretta al suo campo organizzativo e clientelare, ne deriva una sorta di naturale subordinazione degli interessi del Paese a quelli del partito o, peggio ancora, agli interessi delle fazioni all’interno dei partiti, vale a dire il deprecato fenomeno del correntismo che ha condizionato per lunghi anni la politica nazionale.
MORALIZZARE LA VITA PUBBLICA
Nel 1958 Sturzo formula una proposta di legge tesa alla moralizzazione della vita pubblica, alla limitazione del potere dei partiti nelle attività parlamentare e governativa, al controllo delle spese e dei finanziamenti degli stessi. Non riscosse molto successo. I fasti partitocratici erano appena cominciati e i trionfi di Tangentopoli erano ancora lontani.
C’è da osservare, in questo contesto, come Sturzo assegni al Parlamento la priorità rispetto al potere governativo ritenendolo il centro della vita democratica “in quanto rappresenta I’intero popolo in cui ogni istituzione democratica e ogni atto democratico istituzionalizzato devono trovare origine e, in parte (ma solo in parte), giustificazione”, ha sottolineato lo studioso italo-americano Alfred Di Lascia. Abbiamo, anche a questo riguardo, constatato come il partito della Democrazia cristiana abbia disatteso l’indicazione sturziana allontanando la formazione della decisione dal Parlamento e trasferendola nelle segreterie politiche i cui deliberati per decenni sono stati pressoché sistematicamente recepiti dai governi.
Ha notato ancora Di Lascia: “Le preoccupazioni di Sturzo per la formazione di centri oligarchici e di poteri extra-costituzionali, riflettono ciò che possiamo chiamare la finalità extra-polemica della sua polemica anti-partitocratica, in quanto tale polemica e profondamente radicata nel suo impegno teoretico e pratico, curata tutta la vita, per istituzioni democratiche libere entro un sistema costituzionale realmente rappresentativo; e in questo ambito particolare un partito politico, indispensabile per trasformare una determinata opinione pubblica dal suo stato grezzo in una costruttiva coscienza collettiva, non può mai rivendicare alcun diritto di potere esclusivo, poiché a nessun singolo potere o istituzione è mai riconoscerla una simile pretesa. In breve, nessun partito politico può pretendere di possedere la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità; in concreto, nessun partito può pretendere di essere come il granito, solido, inattaccabile, massiccio; o, in termini filosofici, nessun partito può pretendere di essere ‘ideologico’ (nel senso marxista del termine)”.
Infatti, Sturzo asseriva: “Questi liberali […] purtroppo […] devono convincersi che categorie in politica non esistono, e che partiti “teorici”, come li pensano costoro, non sono esistiti e non esistono, e che i partiti, tutti i partiti, i partiti veri […] mai sono granitici e mai sono amalgama di teorie, e mai sono confessionali, perché i partiti, se operano e resistono alle lotte avversarie, sono essenzialmente espressione politica ed economica di interessi comuni”.
DON LUIGI STURZO, UN PRECURSORE
Ci sono voluti ben cinquant’anni ed una crisi formidabile che li ha come squassati, perché i partiti politici italiani si ripensassero secondo questa elementare verità di Sturzo. In tutto questo tempo è prevalsa una sorta di deificazione del partito che dunque aveva bisogno di un’aura ideologica, surrettiziamente totalitaria, per proporsi ed affermarsi. Anche in questa presunta onnipotenza si è nutrito il “Leviatano” partitocratico.
Sturzo, nel denunciare l’invadenza partitica, si colloca nella stessa linea di tendenze dei grandi accusatori del sistema: Carlo Costamagna, Lorenzo Caboara, Giacomo Perticone, Giuseppe Maranini, Panfilo Gentile, Randolfo Pacciardi, Piero Operti, Mario Vinciguerra. Se fu isolalo negli anni Cinquanta, come lo furono questi suoi inconsapevoli compagni di strada, non dipese da lui, ma dallo “spirito del tempo”.
Don Luigi Sturzo ha ancora oggi un valore straordinario come esegeta del regime dei partiti, del quale, in una sinistra luce di crepuscolo, aveva scorto i tormenti ed i peccati. Un precursore della vagheggiata e mai attuata Nuova Repubblica.