Confesso: non sono mai stato un tifoso delle primarie, figlie della cultura politica americana che non conobbe mai qualcosa di paragonabile alla forma-partito europea. Le primarie all’italiana, poi, hanno prodotto un’ibridazione tra modello yankee e ambiente domestico, che ha risentito parecchio dello spirito del tempo incerto in cui sono state adottate.
In pieno declino dei partiti, messe in campo con la formula “open”, cioè aperta non solo ai soci ma a tutti dietro pagamento di un fee di partecipazione, hanno avuto una funzione plurima in cui la selezione del vertice è stato solo uno degli obiettivi da cogliere e, spesso non il più importante. soprattutto quando l’elezione del segretario (si ricordi Renzi alla seconda candidatura) o l’indicazione del capo di governo (si ricordi Prodi) apparivano scontate. Così la partecipazione ha soventemente rappresentato, per i non vincenti in partenza, un modo per accumulare crediti per gli organigrammi futuri di partito e di governo e, nei casi di performance non brillantissime, almeno per ottenere posti sicuri nelle liste bloccate per il Parlamento nazionale. Per il partito, poi, un momento di mobilitazione con numeri grossi da esibire.
Non sono un tifoso delle primarie e però faccio il tifo, da esterno, per le primarie del Pd. Intanto perché in un modo o nell’altro con la conclusione delle procedure congressuali si metterà fine allo psicodramma che ha ingessato la forza principale dell’opposizione per un anno intero, almeno dal giorno successivo alle elezioni del 4 marzo 2018. La quale cosa, piaccia o no il Pd, ha significato un vulnus vistoso nelle dinamiche democratiche del Paese, e forse anche un danno per la stessa maggioranza di governo. Poi perché un popolo, quello della sinistra riformista, rimasto orfano e deprivato della rappresentanza, potrebbe ritrovare una ragione ed un leader, quale che possa essere l’investito. Perché il paradosso di questa fase della politica italiana è dato dal fatto che, allo stato, le vistose difficoltà del governo in carica non riescono ad avvantaggiare le forze dell’opposizione, ma producono la redistribuzione dei consensi nell’ambito della stessa maggioranza: segno evidente che non c’è la percezione da parte del corpo elettorale, di un’efficace azione oppositiva.
Solo per capirci: il governo nelle sedute del CdM del 27 e 28 febbraio ha prodotto ben 11 disegni di legge di delega praticamente su tutto lo scibile umano, dal codice della strada, al turismo, dagli agli appalti pubblici, allo spettacolo, dal lavoro all’ordinamento militare, dall’agricoltura alla semplificazione, dall’istruzione alla disabilità e forse qualcuno pure ci sfugge. Insomma: con la legge di delega, ovviamente prevista dalla nostra Costituzione, ma entro i limiti stabiliti dall’art. 76, si investe il governo della funzione legislativa che viene di norma esercitata dalle Camere. Per alcune delle materie richiamate la delega è plausibile, ma è l’insieme che francamente lascia perplessi. Perché con ventagli così ampi di oggetti, materie e validità della delega, di fatto il Parlamento si spoglia della sua funzione in favore del governo.
Non si sono ascoltati sussurri che abbiano raccontato dell’allargamento esagerato del governo con le deleghe, e questo un poco preoccupa. Insomma, amici del Pd fate la vostra scelta e poi il vostro mestiere di oppositori, come avviene nei paesi europei dove l’alternanza democratica è di casa. Se ne gioverà la politica e il Paese.