Due i fatti sorprendenti che richiedono una spiegazione non convenzionale: l’alta partecipazione alle urne
per la scelta del nuovo segretario del Pd; il convergere dei voti, con una percentuale superiore al 65 per
cento, su un candidato che rappresentava una svolta consistente rispetto alle esperienze più recenti di quel partito.
Da questo punto di vista, Nicola Zingaretti non è né “l’usato sicuro”, come si era detto per Pierluigi
Bersani, né quella novità che era stata rappresentata da Matteo Renzi e dalla sua stagione. Rispetto alla
quale, semmai, si intravede una sorta di ritorno alle origini. Ad un partito, cioè, che sembra caratterizzarsi
più sul fronte della continuità con un più lontano passato, che non su quello opposto del più avanzato
rinnovamento. Ed il fatto che, ai gazebi, come narrano tutte le cronache, sia siano visti soprattutto gli over
50 piuttosto che i giovani, suona conferma di questa sensazione. Che va, tuttavia, spiegata nelle sue chiavi
di carattere sociologiche.
La prima cosa da considerare è che il successo di Zingaretti non è una derivata della sua azione amministrativa, come governatore del Lazio. Senza voler entrare in una disamina puntuale di quanto più o meno realizzato e delle critiche da parte dell’opposizione – valga per tutte quelle di Claudio Durigon sulla
sanità – il suo carnet di successi è piuttosto limitato. I dati Istat sull’andamento del prodotto interno lordo per abitante mostrano, al contrario, una preoccupante inversione di tendenza. Fino al 2007, infatti, il Lazio
si era sviluppato ad un ritmo maggiore rispetto ai livelli nazionali. Dal 2002 al 2007 il suo reddito pro capite
era aumentato del 4 per cento, contro una media nazionale del 3,3. Ma, a partire dagli anni successivi, una
vera e propria catastrofe. Già nel 2011 un arretramento di circa 1 punto rispetto al resto del Paese. Fossato destinato ad allargarsi proprio durante la doppia consiliatura di Zingaretti. Nel 2013, epoca della sua elezione, il divario era di oltre 4 punti nei confronti delle medie nazionali. Ma nel 2017 questa distanza era ulteriormente cresciuta, raggiungendo i 6,3 punti percentuali.
Altrove va quindi ricercata la spiegazione di quell’indubbio successo.
Forse più demerito degli altri che non
proprio merito del Pd, che in questi mesi ha brillato per il suo immobilismo politico e le sue divisioni interne. Il successo dei gazebi si verifica dopo i risultati elettorali maturati in Abruzzo e in Sardegna, che avevano già segnato una discontinuità rispetto alle risultanze delle elezioni politiche di un anno fa.
Dodici mesi che il governo gialloverde ha vissuto pericolosamente: senza essere in grado di far balenare una comune visione di futuro del Paese. Con i due provvedimenti monstre – salario di cittadinanza e “quota
cento” per le pensioni – che non hanno ancora prodotto alcun effetto concreto. Ma che, in compenso, hanno alimentato polemiche infinite sia in Italia che all’estero. Se poi a questo si aggiungono le pulsioni giacobine dei 5 stelle contro gran parte della classe media – i “parassiti” secondo il linguaggio di Luigi Di Maio – è facile scorgere le ragioni dello spostamento del pendolo. A favore della Lega per la determinazione dimostrata sul terreno della sicurezza. Ed ora anche a favore del Pd per il volto più rassicurante che Zingaretti ha nei confronti dello stesso elettorato di sinistra.
Questi trend non contribuiscono tuttavia a spiegare perché il voto abbia premiato, come si diceva in precedenza, la continuità con la vecchia esperienza post-comunista, e non gli innovatori: Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Al di là del peso specifico di ciascun personaggio, l’attenzione va riposta su un clima culturale che sta cambiando rapidamente. La globalizzazione non affascina più come negli anni precedenti.
Dopo la crisi del 2007 si è capito quanto possa far male il moral hazard dei grandi finanzieri, destinato a scaricarsi su vittime innocenti. In Italia la coda velenosa di quelle stesse vicende si è avuto nei fallimenti
bancari, che hanno caratterizzato grandi (Mps) e piccoli istituti di credito (Banche Venete, Etruria, Banca
Marche, Cariferrara, Carichieti ed ora Carige). Insomma la fiducia nel “mercatismo”, come avrebbe detto
Giulio Tremonti, non è più moneta sonante.
Ed ecco allora un certo ritorno all’antico. Che non significa, ovviamente, rinverdire le vecchie ricette del bel
tempo andato – a questo credono semmai solo i 5 Stelle – ma far emergere una diversa consapevolezza.