Come si costruisce o, meglio, come si seleziona, si scopre (di solito è già fatta) e, poi, si fa lavorare una classe dirigente? Per ricordarsi di come le grandi teorie élitiste italiane, tra Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, o il tedesco Robert Michels o ancora, per molti rispetti, Max Weber, si siano affermate, dobbiamo qui ricordare, prima di tutto, un tema costitutivo della massa, almeno nel senso in cui ne parla Elias Canetti. La massa è un insieme di individui, ci dice Canetti, ma che si si forma per un caso strano ma del tutto fisico, il “capovolgimento del timore di essere toccati”. Che è un fenomeno soggettivo che la massa ci fa superare. Se sei in due, e già metà, diceva Leonardo da Vinci. A questa innaturale, temporanea situazione segue la ricerca di una meta comune immediata e, poi, alla fine, arriva inevitabilmente la “scarica”, ovvero il momento in cui la tensione sale subito e poi immediatamente cade, per poi far ritornare la massa al suo stato naturale, quello di insieme di individui. Che hanno paura di “essere toccati”. Le masse sono quindi sempre temporanee, ma le classi dirigenti lo sono sempre molto meno. Tutto ciò è un fatto del tutto biofisico, riguardante soprattutto la psicologia del profondo, il meccanismo della massa è quindi un fenomeno del tutto naturale, ma sempre e comunque instabile. Azione politica e psicopolitica comunissima, destinata, peraltro, a non poter distinguere mai tra soddisfazione simbolica, parziale, reale o completa.
La massa va sempre alla ricerca di simulacri, simboli, persone, essa è sempre attiva per gli “untori”, come ci descriverà un autore come il Manzoni, on ha interesse alla verità, ma alla “scarica”. Le élites, invece, sono del tutto naturali e spontanee, e comunque si sviluppano, sempre e comunque, come affermava Pareto in un ormai famoso brano del suo Trattato di Sociologia Generale, del 1916, tra i matematici come tra gli scassinatori, tra i filosofi come tra i ragionieri o gli operai. Ciclicità naturale delle élites, quindi, ma che nascono con criteri inevitabili e ciclici, eterna imponderabilità, tra atti razionali e non, delle masse, cicliche anch’esse ma imprevedibili e spesso del tutto inutili, tranne la loro “scarica” finale, nel loro organizzarsi. Prima regola, quindi: proteggere fortemente la lenta e sottile formazione delle élites e evitare quindi che esse debbano, per forza, essere usate dalle masse come clave per poter ascendere al potere. Seconda regola, e attualissima, visto che le élites sono naturaliter razionali, che vi sia un profondo e nobile humus culturale comune tra i membri di una classe dirigente. Socialismo o Cristianesimo, liberalismo o illuminismo, mazzinianesimo o altro, non vi è élite che non nasca da una dea, da un principio metafisico, da uno slancio ideale. Altrimenti, abbiamo a che fare con dei tizi che mirano a una rendita, che peraltro non saranno capaci di tenere.
Senza cultura non si dà, quindi, alcuna classe dirigente, e questo ben ci ricorda che il mondo cattolico che si riunì a Camaldoli non solo proveniva da una lunga tradizione di dottrina sociale della Chiesa, ma da una tradizione religiosa che si rifaceva al futuro Card. Montini e ai “discorsi radiofonici” di S.S. Pio XII. Senza quella che i manovali della filosofia attuale definiscono “metafisica”, non si creano classi dirigenti. E il nostro mondo attuale verifica appieno questo assunto. Senza auctoritas non vi è élite. Ma come venne impostato, quindi, l’incontro di Camaldoli? Con un tempismo perfetto, altra caratteristica delle classi dirigenti reali ed efficaci. Poiché, senza efficacia del comando e della direzione politica, economica, morale, l’élite non è mai tale, al massimo può essere una “scarica” di massa, e per breve tempo, quello relativo al ciclo della “classe politica”. Il tempismo riguardava proprio la data: Camaldoli avviene tra il 18 e il 23 luglio 1943, nell’eremo toscano, mentre lo sbarco alleato in Sicilia ha luogo nella notte tra il 9 e il 10 luglio sempre del 1943 poche ore prima dell’incontro eremitico toscano il Gran Consiglio del fascismo, il 24 luglio di quell’anno, sfiducia Mussolini e si rimette, con l’”ordine del giorno Grandi”, nelle grette, deboli, incapaci e stanche mani del Re Savoia. Cade il mondo dei “laici” risorgimentali, quindi, il Re fugge mestamente da Roma, dormendo persino a Via XX settembre alla Difesa, per la consueta e miserrima paura, poi il fascismo si divide tra la ricerca di una protezione alleata che non ci sarà mai, ci mancherebbe altro; e il destino tragico di fare da copertura orrenda alla fase finale, e ferocissima, del Terzo Reich in Italia. Regime “alleato” che era entrato, pochi giorni prima della notte del Gran Consiglio, in forze in Italia e con due gruppi di armate, la Achse e la Alaric. Più chiaro e simbolico di cosi. Crolla il mondo dei miti risorgimentali e “laici”, risorge, fenice inevitabile, la classe dirigente cattolica, l’unica che sia preparata alla bisogna. E che abbia la faccia povera, ma pulita. Gli intellettuali cattolici organizzati nella Azione Cattolica sono già molti e ben radicati nella società italiana e nella direzione dello Stato, malgrado la repressione che il regime fascista compirà, fin dall’inizio, delle organizzazioni della Chiesa, o assorbendole o distruggendole.
Eccola, una nuova regola per la selezione delle classi dirigenti, ma che vale sempre: le classi dirigenti reali e efficaci sono sempre quelle radicate nel popolo, che nascono dal popolo, che appartengono quindi alla lunga e ininterrotta catena, che certo in Italia non può non dirsi cattolica, di quella che potremmo intuitivamente definire come “la civiltà italiana”. C’è altro, forse? Senza far parte di una lunga catena di tradizioni, sapienze, usi, codici scritti e non, non si è mai classe dirigente, ma solo degli invitati a un party di snob, che non lasceranno alcuna traccia. Sergio Paronetto, uno dei grandi membri del ritiro camaldolese, parlerà in questo caso di “rivoluzione cristiana”, dopo la crisi dello stato liberale e la caduta verticale, terribile e immediata della dittatura. L’Italia, quindi, ritornava alla sua lunga e mai del tutto interrotta tradizione, cristiana e nazionale, civile e morale. Che nemmeno il fascismo aveva del tutto interrotto, con il suo mito para-marxista dell’”uomo nuovo” o dello Stato Nuovo. Il Risorgimento ritornava, proprio allora, alle sue radici che, pure, erano spesso apertamente cristiane e cattoliche: dal Lambruschini al Pellico e a Manzoni, ma anche da Don Tazzoli e a Cesare Balbo fino al Primato Civile e Morale degli Italiani, testo fondamentale del Gioberti. Nemmeno il Risorgimento, in Italia, è stato monopolio dei miti rivoluzionari o delle teogonie illuministe. Ecco, altra regola, un’ élite innova davvero solo e unicamente parlando di Tradizione. Camaldoli comunque non nasce, ovviamente, dal nulla, ma soprattutto dal Codice Sociale di Malines.
Il Codice franco-belga nasce direttamente dal novum che si va manifestando nella società europea: lo scoppio quasi immediato del capitalismo industriale o, come lo avrebbe correttamente chiamato Karl Marx, il “sistema della fabbrica”. Aumento colossale e rapidissimo della produttività unitaria, incasermamento della classe operaia nel suddetto “sistema della fabbrica”, in collegamento con le nuove tecnologie energetiche, nuova organizzazione del salario. Tempi stretti e energia che costa, altre due variabili da mettere nel conto. Quindi, ferocissima e rapida polarizzazione sociale, forse mai verificatasi prima e in questo modo in Occidente, poi successiva proletarizzazione, infine tendenza all’accumulo delle ricchezze in poche, pochissime mani. I cattolici vedono molto bene il novum di questo sistema produttivo e sociale e lo ritengono del tutto pericoloso per la tenuta sociale, morale, etica e addirittura fisica e materiale della società umana. Certo che avevano ragione. E oggi hanno ragione tutti quelli che indicano il pericoloso novum del capitalismo finanziar-tecnologico globale.
Mentre, per alcuni versi, il marxismo stesso ripete il mito borghese della rivoluzione capitalistica come novum, che è ritenuta, talvolta fideisticamente, necessaria, ovvero la rivolta borghese che prefigura quella finale e proletaria, i cattolici sanno che non vi è mai necessità formale, nello sviluppo storico. Né si deve mai pensare che, da Malines a Camaldoli e alle altre norme ecclesiastiche sulla “questione sociale” fino agli anni ’60 del XX secolo, il cattolicesimo si sia trincerato in una banale “teoria del mezzo”, mediando tra padroni e operai una sorta di idealistico medium aristotelico. No, nient’affatto, Camaldoli è il momento storico in cui una classe dirigente che si erge tra le rovine fumanti di un grande Paese, l’Italia, propone un progetto economico e politico del tutto nuovo, che non media un bel niente tra liberalismo borghese e socialismo proletario, ma è ben diverso da entrambi. Ogni élite non può, altra regola, non essere originale, nessuno comanda mai efficacemente ripetendo o sintetizzando quello che altri hanno detto prima di lui. Quindi, a Camaldoli verranno tecnocrati di gran vaglia (il termine verrà di moda in seguito) come Sergio Paronetto, dirigente dell’Iri e collaboratore strettissimo del “laico” Donato Menichella, futuro governatore della Banca d’Italia, o Pasquale Saraceno, ideatore della Cassa per il Mezzogiorno e originale pensatore del meridionalismo cattolico. Nessun “costruttore di libri per mezzo di altri libri”, per dirla con Jonathan Swift.
Fu, Paronetto, l’ideatore, anche, di un meridionalismo cattolico e tecnocratico ben diverso da quello, sia pure spesso geniale, del laicismo radicale o liberale, di tradizione crociana; il vero criterio cardine dei cattolici di Camaldoli, per il Sud, era quello di pensare a “un numero accanto al problema” e soprattutto alla profonda industrializzazione del Meridione, senza crogiolarsi nella sola agricoltura. E senza fare colore locale, cosa che accadeva, e lo dico da vecchio amico, ai tanti laici di “Nord e Sud”. Oggi, però, si divide facilmente e ingenuamente tra “tecnocrazia” e “politica”, ma le vere classi dirigenti pensano simultaneamente a entrambe le cose. Sempre. Ma senza Aldo Moro, comunque, questo razionale meridionalismo di Camaldoli avrebbe avuto, certamente, minori effetti. Ripensare il meridionalismo di Moro, questo sarebbe davvero importante, nel dibattito politico e programmatico attuale. Altra figura utilissima, per caratterizzare Camaldoli e il suo progetto, fu Giuseppe Capograssi. La persona giuridica, nel suo pensiero, che diviene, sulla base delle teorie di Mounier e della filosofia francese “dell’azione”, sostanza dell’atto e della stessa forma del diritto. Dopo le masse totalitarie, quindi, dopo i miti folli e suicidi delle classi che sono sempre in contrasto strutturale, dopo la “nazionalizzazione dei popoli”, il cattolicesimo camaldolese del 1943 riprende un tema che sembra desueto, ma è inevitabile: la persona umana. Che è sempre un Unicum. Le classi dirigenti reali vanno, altra regola, all’essenza dei problemi e della natura della società umana, non si fanno coprire la faccia dalla maschera di certe ideologie, magari anche di successo, ma che durano, con ferocia, un breve spazio di tempo. Certo, la cultura dei teorici di Camaldoli non era solo legata alla Dottrina Sociale della Chiesa. Che era, comunque, carne e sangue del loro impegno, di cattolici e di tecnici.
Tra di loro, si discutevano spesso i lavori di Schumpeter ( con la distruzione creatrice del capitalismo e, soprattutto, il modello dei business cycles) ma anche Max Weber, per il suo nesso tra riforma protestante e capitalismo (e quanto “capitalismo” aveva però creato la discussione francescana sul lecito interesse o la prassi dei templari e dei gerosolimitani nel commercio internazionale? Fanfani lo sapeva bene) e persino Berdiajev, poetico e dostojevskiano anarchico cristiano, uomo della creazione libera e della libertà del soggetto, quasi assoluta, di contro a una società collettivizzata, ma anche Sombart si leggeva, sociologo di aspetti che, cosa nuova nella società occidentale, entrano direttamente nella produzione e nella politica, come la moda, e, naturalmente, John Maynard Keynes. L’apertura mentale e culturale, ecco un altro tratto tipico e inevitabile delle vere élite. Che, magari, possono e anzi devono non essere snob, che è da cafoni, ma mai provinciali. E qui, che grande differenza c’è ancora tra i “professorini” di Camaldoli e le attuali classi dirigenti o che credono di esserlo! Lì creatività e libertà intellettuale, oggi assunzione para-professionale di un politically correct da banali ripetitori di ingenui manuali “globali”. E, comunque, sul piano della “costituzione economica”, come allora la si chiamava, Camaldoli ha predisposto, anche nel testo della stessa futura Costituzione repubblicana, un modello efficace, non di banale “terza forza”, ma di una teoria ben elaborata, in cui si delinea l’autonomia delle “comunità intermedie”. Ovvero, gli individui, secondo la teoria sociale della Chiesa, che si uniscono naturalmente tra di loro e, quindi, lo Stato non viene generato dalla costrizione o da un modello astratto e falso che comprime la società in un mito, ma da un sistema organico e reale, in cui tutte le organizzazioni naturali e concrete tra gli uomini compongono, appunto, la società.
Non Hegel, quindi, con la sua separazione tra “società civile” e Stato, non i liberali inglesi con la loro separazione tra Sovrano hobbesiano e mondo “degli scambi”, come se gli scambi non disegnassero mai, appunto una società, non certo Marx con il suo Stato di una classe contro un’altra, che prefigura e anticipa violentemente l’”ordine nuovo”, non, naturalmente, nemmeno il fascismo con il suo Stato etico, totalizzante e, quindi autoritario, con al suo fine ineluttabile la guerra imperiale. Per quelli di Camaldoli, la libertà dei gruppi intermedi, della Chiesa, delle autonomie locali e sociali, doveva subito agganciarsi alla democrazia politica, con una qualche e reale autonomia economica dei vari gruppi sociali (non classi, dico gruppi) poi doveva esserci una nuova articolazione di questi organi, in modo che essi non dovessero poi, alla fine, trovarsi nelle mani dello Stato. Una democrazia “personalista”, diremmo, incentrata sulle autonomie soggettive e dei gruppi liberi della società, nati proprio nel flusso naturale della società, ma che a causa per queste radici personaliste superavano il socialismo “dottrinario” e autoritario, allora incentrato sul mito di Stalin. O anche il mito dell’individuo borghese liberale, che è soggetto pieno solo in quanto totalmente autonomo e proprietario, o anche, infine, il mito, se lo notate anch’esso irreale, dell’individualismo antistatalista, che vede, alla fine, nello Stato solo un “costo” e un “orpello”.
Quante ideologie, oggi, sono così tanto à la page ma riprendono, spesso anche in modo rozzo, queste teologie ingenue e laiche della politica! Qui, e anche in questo caso c’è da notare la grande novità del pensiero cattolico sociale di quegli anni, dalla Quadragesimo Anno del 1931 alla fondamentale Rerum Novarum del 1891, c’è un tema che si impone ai giovani intellettuali che andranno a Camaldoli. Un criterio essenziale e, Dio solo sa, quanto attuale: “la felicità dell’uomo non va intesa solo in termini materiali, ma anche spirituali”. Quindi, proprio come dice la Quadragesimo Anno, qui si tratta unicamente della “ricostruzione integrale dell’ordine sociale”, ovvero della pacifica collaborazione tra le classi, ma anche della repressione di ogni istanza, in cui le classi economiche pensino di compiere da sole tutta la riforma economica della società. L’”interclassismo” cattolico non è una sorta di bon ton politico, è proprio l’essenza del problema. Perché non esistono mai né possono esistere “società senza classi” o organizzazioni economiche monoclasse, è qui come se tutti fossero costretti a camminare di lato o all’indietro.
Una follia, ma invece la società moderna, che i cattolici pensano prima di molti altri, è una complessa struttura di funzioni, mai riducibile a paradisi rossoviani o a metafisiche dell’Origine, dove tutti si spartiscono, in un irreale mito pseudo-darwiniano, le stesse bacche o gli stessi mammuth. Quindi, per i professori camaldolesi vi è un livello economico, costituzionale, dottrinale a cui corrispondere sempre le proprie azioni: a) l’inviolabilità dei diritti della persona, che compongono anche i nuovi “diritti sociali”, la persona sociale ripete quella naturale, poi b) l’eguaglianza sociale e formale, in cui non vi è lo spirito di rivalsa, sciocca, tra classi che, da sole, non levano mai un ragno dal buco, c) ancora la tutela dei corpi intermedi, come la famiglia o le libere associazioni cooperative e mutualistiche, che hanno fatto la civiltà europea, e ancora d) la classica ma profonda democrazia rappresentativa, oggi attaccata da ogni lato, poi, e) la centralità del Parlamento, ma con una essenziale seconda camera, che rappresenti proprio gli interessi sociali organizzati, e quindi non solo le autonomie regionali, già infinitamente rappresentate e, anzi, oggi meritevoli di controllo, infine f) divisione dei poteri interni, ma non nella semplice e “laica” tradizione di Montesquieu, vi son tre governi… ma in una griglia tripartita in cui si trovano tutti gli equilibri tra le varie istanze. Senza sacralizzazione di ogni “governo” illuminista.
Quali erano, allora, i fini della società economica e morale prefigurata a Camaldoli? Semplice: il lavoro equamente retribuito per tutti, la partecipazione ragionevole ai risultati economici della produzione, l’accesso libero alla proprietà privata, un profondo e stabile Welfare State, la partecipazione di tutte le istanze sociali alla vita politica, economica e culturale. Utopia? E allora cosa chiedono, oggi, le masse dei giovani americani e occidentali, ma anche asiatici, ridotti ormai a zombie nella onnipervasiva gig economy, l’economia dei “lavoretti”, oppure i quasi pensionati che si ritrovano a dover pagare, proprio dopo aver pagato, la crisi del loro Welfare State, che non copre più nulla, al fine di nutrire la sedicente finanza speculativa? Cosa chiedono oggi quelli disperati che non sanno più cosa fare o vivere, come gli studenti universitari eterni di corsi inutili e talvolta ridicoli, oppure le imprese che si ritrovano a dover chiudere; per poi trasferirsi dove il lavoro non costa nulla, o magari essere costrette a dover vendere a “marchi” globali che magari lavorano in Ghana in Burkina Faso, o perfino altrove? Non è attuale, quindi, secondo voi, il progetto di Camaldoli? E cos’è attuale, allora?
Mentre tutto il mondo si muove dentro questa camicia di Nasso, tra regole finanziarie banali e pericolose; e terribili tentazioni sempliciste, non sarebbe meglio guardare alla “teoria della persona” e della sua completezza? Cosa credete che entri nell’economia, solo le tasche posteriori o magari, come sempre, l’anima, il lavoro, lo spirito, la passione dei popoli? Taviani, poi, a Camaldoli, auspicava una reinterpretazione del corporativismo fascista, e non dimentichiamo che fu proprio il dirigente Dc genovese che fu il primo politico a fare da “tutela” alla rete Stay-Behind -“Gladio”. Paolo Emilio Taviani intendeva quindi costituire, tra Camaldoli e la Costituente, un “organismo che, pur sotto la vigilanza dello Stato, fosse da propulsore dell’economia e della produzione, basato sull’equilibrio degli interessi e sulla competenza tecnica”. Certo, ci furono anche memorie del corporativismo fascista a Camaldoli, ma erano quelli progetti, di fatto nuovissimi e davvero antifascisti, non di folle totalitarismo economico ma di libero estrinsecarsi, tecnico e operativo, dell’equilibrio delle classi. Autonome e politicamente attive. Già allora, i “professorini” di Camaldoli sapevano quanto fosse debole, superficiale, spesso incompetente il comando borghese dell’economia italiana. Spese folli, imitazione, come accadeva peraltro anche in Gran Bretagna, delle abitudini dei rentier, superficialità tecnica e manageriale e abitudine inveretara, alla prima crisi, a vendere al primo venuto. E sarà proprio questa debolezza dei “padroni” a caricare successivamente l’IRI, in anni più vicini ai nostri, di panettoni e succhi di frutta, di libri e abiti, di oggetti d’arte e di pomodori. Certo, qualcuno fece perfino dello spirito, ma la vergogna doveva invece ricadere su chi, dopo aver spolpato le proprie imprese, spesso fondate da uomini antichi e straordinari, le lasciava alla tecnocrazia, espertissima spesso, dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale. L’Iri che il cattolicesimo sociale rese uno straordinario strumento per la crescita post-bellica, non un “carrozzone” come fu detto, con molta superficialità, in seguito. E non sarebbe male, per esempio, creare un nuovo Fondo per la Socializzazione delle Imprese, che finanzi gli operai che vogliono riprendersi le fabbriche della Piccola e Media Impresa che fallisce. Sui monopoli, poi, la dottrina sociale della Chiesa era chiarissima. Erano un fatale episodio, e qui avevamo ragione, della soluzione della concorrenza capitalistica e la deriva di un altro monopolio di fatto, quello della tecnica. Cosa farne, quindi dell’Iri e delle grandi aree industriali italiane? Un acchiappanuvole liberale, o un sognatore socialista, avrebbe subito distrutto i monopoli, distruggendo anche, inevitabilmente, il loro ruolo nella razionalizzazione produttiva capitalistica e i loro effetti nell’innovazione tecnologica. No, non è questa la legge del Reale, quindi non è la Norma della Chiesa. Si trattava quindi, tra i tecnici di Camaldoli, di piegare ben bene i monopoli e, quindi, farli controllare, casomai, dallo Stato, che magari poteva giungere fino a nazionalizzarli, ma con estrema attenzione. Nazionalizzare non vuol mai dire socializzare. Lo sapeva anche un grande pensatore, liberale einaudiano, ma un laico che spesso sarà d’accordo con le linee di Camaldoli, Ernesto Rossi.
A rileggerlo oggi, quindi, il Codice di Camaldoli presenta una introduzione di carattere fondativo e, poi, sette nuclei tematici. Nella prima parte, si ribadiva la centralità della persona umana, una delle strane novità che, oggi, dobbiamo ribadire ai quattro venti e ovunque. I sette nuclei tematici comprendevano lo Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, la destinazione e la proprietà dei beni materiali, l’uguaglianza dei diritti, la possibilità legittima di appropriazione dei beni, ovvero soprattutto il lavoro, infine la giustizia commutativa. Poi, nelle maglie del discorso, vi si trovava il rispetto della giustizia distributiva e legale nell’intervento dello Stato. Viene qui in mente la battuta di un vecchio sacerdote toscano detta a un giornalista nell’immediato secondo dopoguerra, proprio mentre il bravo Vicario si accingeva a organizzare una manifestazione sindacale dei contadini della sua Parrocchia: “qui non c’è bisogno del socialismo, caro giovine, c’è già Dio”. L’art. 71 del Codice, peraltro, affermava anche che la giustizia sociale è alla base dell’intero sistema, ovvero essa è “una equa ripartizione dei beni per ci non possa un individuo o una classe ad escludere altri dalla partecipazione ai beni comuni”. Ecco il punto, le classi. E chi, oggi, parla di classi sociali, a parte una specie di ironica mascherata di un vecchio socialismo ottocentesco? Ma la grande riforma sociale, dicevano quelli di Camaldoli, non può venire dalla sola forza dello Stato o dalla sua nuda legge, ma dalla azione combinata e liberadelle varie forze sociali. Nulla si fa mai per norma bruta, tutto e sempre opera con l’accordo lucido e razionale delle varie categorie. Altra lezione da imparare, oggi. Per le élites. Quindi, nessun Stato banalmente “assistenziale”; ma uno Stato che, nato dagli equilibri naturali e oggettivi della società civile, previene e tratta gli squilibri senza costi irragionevoli e, sempre e comunque, responsabilizzando la stessa società “civile”. Che non deve essere sollevata mai dalle sue reali responsabilità. Altrimenti lo Stato diventa non arbitro, ma dominus. Per il prelievo fiscale, i “professorini” di Camaldoli pensavano a un sistema fiscale che manteneva la macchina dello Stato (figurarsi, oggi) e a una quota ulteriore d prelievo che serviva a una redistribuzione dei beni disponibili (cit.) tra i vari impeghi e consumi (art. 93). Insomma, il mercato è necessario ma non sufficiente. Mai.
E oggi, chi potrebbe negare questo assunto? Nella parte che fu scritta, sostanzialmente, da Ezio Vanoni, si dice poi che “origine e scopo della società è unicamente la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento dell’uomo” (art. 3,3). La società è, quindi, e Dio solo sa quanto è nuova e perfetta questa definizione, “l’insieme e il complesso di tutte le libere iniziative degli uomini intese a realizzare i loro interessi e fini umani e delle istituzioni ed opere a cui queste iniziative danno vita”. (art.4). Mentre il fondamento dello Stato, fate nota, è hobbesianamente e liberisticamente un immaginario sabba, dove il bellum omnium contra omnes, che non si vede perché non debba continuare in eterno, è alla base della sopravvivenza del “Sovrano”, un tema, questo, che è tipico della “massa” di Canetti. Oppure, tutto si attua, mi raccomando in modo “laico” ma del tutto immaginario, mentre lo Stato o la stessa società si costituiscono con un “sacrificio del Padre” come quello, ripeto del tutto privo di fondamento, che Freud narra nel suo Mosè e il Monoteismo, come se il politeismo dei valori fosse la fine, il fine e quindi lo sciocco caos dell’Occidente, la Dottrina Sociale della Chiesa, invece, pone la società e l’economia nel plein air della razionalità. E’ un caso? Certo che non lo è. C’è da rispettare la duplice legge della Giustizia e della Carità. Giustizia è il suum cuique, che non è l’erba voglio. Ma è solo la Carità, ci dice proprio Ezio Vanoni, il giovane socialista di Morbegno, che ci fa mettere in comune con gli altri tutti i beni. Ma fu, proprio elaborata da Vanoni, la centrale teoria finanziaria nata da Camaldoli. Per il Codice, proprio per mano di Ezio, la finanza si giustifica, in primo luogo, con la necessità di sostenere i costi della Pubblica Amministrazione. Ma, ovviamente, anche la finanza pubblica deve sostenere l’obiettivo primario di Camaldoli, ovvero la giustizia sociale.
Vanoni poi prevede, proprio nell’art. 93 del Codice, una seconda funzione efficace dei tributi, cioè quella della “redistribuzione dei beni disponibili tra i vari impieghi e consumi” e, quindi, essa concorre a ri-creare la distribuzione della ricchezza. Sapienza tecnica, quindi anche sapienza filosofica e religiosa. Che, spesso, non vanno mai separate. Immaginatevi se, allora, la fiscalità fosse stata capace di risparmi colossali per i winners e di disastri, ugualmente massicci, per i losers. Come oggi accade. Avrebbe tenuto, allora, la società italiana, come invece non accade oggi con il bonus fiscale globale per le multinazionali e il sovraccarico fiscale per le classi medie, peraltro impoverite? No, certamente. Certo, Camaldoli è oggi ormai fuori dal primo cattolicesimo sociale, legato al corporativismo pre-fascista e all’azionariato operaio, ma meno evidente è la derivazione del Codice di Camaldoli dalle teorie davvero corporativiste e, anch’esse, prefasciste, di Amintore Fanfani, di Francesco Vito, di Jacopo Mazzei. Francesco Vito, peraltro, in un suo vecchio articolo sulla “Rivista Internazionale di Scienze Sociali” della Università Cattolica, prende in giro, proprio nel 1945, gli autori marginalisti, quelli secondo i quali la minestra alla fine ha minor valore del suo cucchiaio di inizio. La microeconomia, che oggi fa da fondamento alle insulse equazioni da “gas perfetti” dei flussi finanziari, faceva ridere, credo proprio giustamente, i teorici dell’economia “reale” e concreta di cui si occupavano i teorici cattolici, Ma anche i Keynes, i Sombart, i Veblen, i Marshall. Quindi, il Codice di Camaldoli non è la solita e facile “terza via” tra capitalismo e socialismo, due ideologie mai completamente realizzatesi su questa terra; ma una tecnica, sapiente e ancora attualissima, di concertazione interna nelle economie nazionali (o di area) e di raggiungimento della giustizia sociale all’interno di una economia di mercato. Ancora oggi, è l’unica soluzione possibile.