Quanti sono i politici certificati, vale a dire quelli che risultano eletti in un’assemblea rappresentativa attraverso una procedura che si rinnova periodicamente? A fare un rapido conto tra Comuni, municipi e circoscrizioni amministrative locali, Regioni, Parlamento nazionale e rappresentanti in seno al Parlamento Europeo in Italia arriviamo a circa 150mila. Abbiamo escluso le province perché, com’è ( forse) noto, la rappresentanza in quell’ambito è di secondo grado, cioè non vota il corpo elettorale ma solo gli eletti nei comuni, per cui non li contiamo due volte. Insomma il numero è quello.
È grande? È piccolo? È adeguato? Siamo un Paese di 60milioni di abitanti e forse questo numero non sarebbe affatto esorbitante se tutto funzionasse. Comunque quando parliamo di addetti alla politica, cioè di un universo o un demi-monde che ruota attorno agli incarichi pubblici che la politica può distribuire, dobbiamo almeno raddoppiarlo. Il numero complessivo non lo conosce nessuno: è un po’ come il numero delle leggi italiane, di cui viene fatta una stima che va da 200mila all’infinito. E siccome nessuno è mai riuscito a contarle, ognuno può spararla più grossa. Ma torniamo ai politici certificati. È interessante registrare che vengono eletti col voto di preferenza i consiglieri dei comuni superiori a 15mila e quelli municipali, i consiglieri regionali e i deputati europei mentre sono chiamati a ricoprire la carica col sistema a liste bloccate solo i parlamentari nazionali.
Il 26 maggio, allora, andranno a votare 3.860 Comuni, quasi il 50% del totale, 29 dei quali sono capoluoghi, 13 con più di 100mila abitanti. In più voteranno a fine marzo la regione Basilicata e il 26 di maggio anche il Piemonte. Che succede allora nell’immarcescibile panorama antropologico della politica “di contorno”, quella, cioè, del demi-monde che vivacchia in simbiosi (attinia-paguro) con i politici certificati?
C’è un mondo appendicolare, avvitato alla politica che si gioca la partita elettorale, che vive il suo momento magico in occasione delle elezioni con voto di preferenza. È il mondo vasto dei “facilitatori”, di “quelli che portano i voti”, di quelli “ne ho fatti eleggere tanti”, incastonati principalmente nell’orografia politica locale, ad un soffio dai veri attori in commedia. Cosa offrono? Voti. Si fanno garanti di accordi con portatori sani di preferenze, organizzano il territorio, rendono possibile – o raccontano di saperlo fare – un rapporto tra candidato e corpo elettorale, cosa che nell’agire politico degli ultimi anni, specialmente a livello nazionale, è stato confiscato dai media. Cosa chiedono in cambio? Beh, al netto dell’area dell’indicibile, che infatti possiamo solo immaginare, possono chiedere impegni di riallocazione politica nell’ambito del potere locale ( “se vai a fare l’assessore voglio entrare nel cda della municipalizzata”), o di upgrade ( “sei consigliere regionale ed io il primo dei non eletti: ti aiuto per il livello più alto così io entro”), o di collaborazione diretta con l’attore politico (“se diventi deputato europeo ti vengo a fare da segretario”).
È proprio nel voto per le Europee, dove si incontrano circoscrizioni elettorali di surreale sconfinatezza e candidati pescati da mondi remoti, del tutto inconsapevoli del come si possa cominciare a impostare una campagna elettorale, che il “facilitatore” da’ il meglio di sé. La cosa singolare è che, mentre il turn over nel mondo della politica rappresentata nelle istituzioni, è diventato forsennato, per cui la permanenza media nelle assemblee elettive si è fatta corta, i “ facilitatori “ sono invece sempre lì, eterni, seguendo come animali da fiuto la pista del governo. Perché per loro vale il comandamento: “Con la Francia o con la Spagna, purché si magna”.