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Perché sul dossier Via della Seta si arriverà al Tar. La profezia di Aresu (Limes)

Strutture e infrastrutture. All’Italia mancano le une e le altre. Manca una struttura politica coesa, perché il governo gialloverde nazionale e i suoi riverberi locali coesi non sono. E mancano le infrastrutture, con più di 270 opere pubbliche da sbloccare e ben di più in progettazione con scarse chance di veder la luce. Ha senso, dunque, mettere in cima all’agenda pubblica l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative (Bri), il ciclopico piano infrastrutturale cinese che attraversa Asia, Africa ed Europa? Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes e direttore scientifico della Scuola di Politiche, ha i suoi dubbi. “Sappiamo tutti che c’è un costo esterno nel nostro rapporto centrale, quello con gli Stati Uniti, ma ce ne sono anche altri ­– spiega intervistato da Formiche.net ­– ne cito due: il primo è un senso di mancata coesione del sistema italiano, l’adesione alla Bri può palesare forti distinzioni nell’arco politico italiano e fra diversi ministeri come già è successo fra Farnesina e Mise, sarebbe invece auspicabile per il nostro interesse nazionale che l’Italia marciasse compatta”.

Poi c’è il secondo scoglio. “Io lo chiamo ‘Xi Jinping al Tar’ (ride, ndr), non ha senso firmare memorandum in un Paese che ha scarsa capacità di realizzare infrastrutture e investimenti e che spesso deve fare i conti con una strenua resistenza popolare”. Meglio concentrarsi su singole intese e partnership fra aziende, abbandonando certe ambizioni babiloniche, per evitare “di promettere al nostro partner cinese che siamo in grado di fare cose che poi non realizziamo”.

I cinesi sanno a cosa vanno incontro, dice Aresu, e avranno non poche difficoltà a crescere nel Vecchio Continente. Motivi tecnici: “È improbabile che si muovano verso gli standard tecnologici e di reciprocità europei, aziende come Huawei non si sono trasformate in colossi dell’hi-tech rispettando questi standard”.

È altrettanto improbabile, spiega l’esperto, che Pechino riesca ad attivare la sua “trappola del debito” investendo nel Belpaese. “I rischi sono bassi, perché la trappola si applica soprattutto a Paesi in via di sviluppo e con dimensioni economiche ben diverse, non siamo di fronte a una penetrazione della finanza cinese in grado di influenzare il nostro debito in una direzione o nell’altra”. In parole semplici, “i cinesi non diventeranno compratori ultimi del nostro debito, non affosseranno i conti italiani né li salveranno”.

È questa una malriposta idea che circola dai tempi della crisi del debito sovrano, quella secondo cui la Cina potrebbe sostituirsi al normale andamento dei mercati internazionali per tutelare la credibilità del nostro debito. Perfino lo scorso autunno, durante la continua spola Roma-Pechino del governo gialloverde, girava voce (non confermata) di una ricerca forsennata di acquirenti di Btp nell’ex Celeste impero. Solo voci, chiosa Aresu: “Il debito italiano non può che affidarsi alla credibilità degli investitori istituzionali internazionali, con investimenti di 1, 2 miliardi di dollari i cinesi non sono in grado di affossare con clausole debitorie l’economia italiana”.

Il rischio di una trappola del debito in scala ridotta si ripropone invece per le singole infrastrutture critiche nel mirino di Pechino. Non è più un mistero che in cima alla wish list dei cinesi vi sia il porto di Trieste, snodo cruciale della via marittima e terrestre della Bri. Gli investimenti dalla Cina fanno gola, perché, la storia del porto del Pireo insegna, decuplicano i traffici. Tutto però ha un prezzo (ancora una volta, Pireo docet). L’eventuale entrata dei cinesi deve essere misurata con cautela, per evitare di lasciare ad aziende di Stato il timone dell’attività portuale. “Memorandum a parte, per Trieste serve un accordo specifico che fissi standard in grado di tutelare le capacità dei tecnici italiani, che in una regione come il Friuli, grazie anche a un’azienda come Fincantieri, hanno costruito competenze importanti – suggerisce il consigliere di Limes. Una compagine azionaria dove gli investitori esteri abbiano un ruolo predominante è un pericolo, “meglio garantire questo ruolo per gli investitori istituzionali domestici”.

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