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Nato e investimenti in difesa, perché l’Italia rischia di restare indietro. Parla Marrone (Iai)

summit afghanistan

Nel 2018 l’Italia ha speso l’1,15% del Pil per la difesa rispetto al target del 2% del prodotto interno lordo fissato dall’Alleanza atlantica, figurando tra gli ultimi dieci Paesi Nato. Il dato emerge dalle tabelle pubblicate in occasione della presentazione del segretario generale Jens Stoltenberg del Rapporto annuale 2018. Gli Usa sono i primi, col 3,39% di spesa, seguiti da Grecia (2,22%) e Regno Unito (2,15%), Estonia (2,07%) e Polonia (2,05%). All’ultimo posto si trova invece il Lussemburgo (0,54%) preceduto da Belgio e Spagna (0,93% ciascuno), Slovenia (1,02%), Repubblica Ceca (1,11%) e appunto Italia. Anche la Francia con l’1,82% e la Germania con l’1,23% restano ancora al di sotto dell’obiettivo. Come leggere questi dati? Formiche.net ne ha parlato con Alessandro Marrone, a capo del programma ‘Difesa’ e responsabile di ricerca nel programma ‘Sicurezza’ dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).

Marrone, che lettura dare di questi dati da un punto di vista statistico e politico generale?

Questi numeri ci dicono che quasi tutti i Paesi europei – soprattutto i principali – hanno preso seriamente l’impegno preso in Galles nel 2014 durante la presidenza Obama di aumentare fino al 2% del Pil, entro il 2024, le loro spese in difesa. Ciò sta avvenendo, anche in modo lento e graduale.

L’Italia si attesta all’1,15%. Si tratta di un dato positivo o negativo?

C’è una duplice valutazione da fare. Nei fatti l’Italia è ferma, nel senso che continua a investire pressappoco la stessa cifra, anche se nel 2018 le spese in difesa sono aumentate e, secondo le previsioni, registreranno una lieve flessione nel 2019 e 2020. Però, se compariamo l’immobilità degli investimenti italiani all’aumento generalizzato che si registra in altri Paesi la situazione italiana è da considerare certamente peggiore. In parole povere se noi spendiamo lo stesso e gli altri investono di più la forbice si allarga. Né a mio parere avrebbe senso includere, come talvolta viene proposto, anche le spese in cyber security. Non perché questo non sia utile ma perché – anche se trovasse consenso tra gli alleati, cosa che al momento non c’è – contribuirebbe solo ad aumentare questo divario, perché ci sono Paesi che investono molto più di noi in difesa cibernetica. Ciò detto ci sono anche altri parametri da considerare.

Quali altri parametri andrebbero considerati?

Grazie anche a uno sforzo diplomatico dell’Italia, oggi il criterio per misurare gli sforzi di un Paese Nato nel settore difesa può essere riassunto in quelle che il segretario generale Jens Stoltenberg ha riassunto nelle “tre C”, ovvero cash, capabilities e contribution. Per ‘capabilities’ si intendono le forze armate impiegabili e per ‘contribution’ il modo in cui queste vengono poi impiegate per la difesa collettiva. In questi due ambiti la Penisola offre un apporto straordinario all’Alleanza, basti ricordare i circa 850 militari impegnati in una missione all’estero come quella in Afghanistan o i 200 militari dispiegati nel battaglione internazionale in Estonia per obiettivi di deterrenza rispetto alle tensioni a est con la Russia.

Tutto ciò come viene valutato dagli alleati?

In linea generale ciò significa che la nostra posizione va valutata complessivamente, ricordando anche questi impegni, ma non vuol dire che saremo esentati dal colmare il gap nel ‘cash’, ovvero nella spesa, soprattutto considerando l’approccio più quantitativo a questo dossier che contraddistingue l’amministrazione Trump rispetto a quella del suo predecessore. Quel che bisogna aver chiaro è che la spinta verso il 2% – un impegno siglato nel 2014 all’unanimità da tutti i capi di Stato e di governo – è strutturale e nasce da una priorità condivisa dalle ultime amministrazioni e dai Congressi americani in maniera bipartisan. I parlamentari e la Casa Bianca, tanto quella abitata da Obama quanto l’ultima che ha come inquilino Trump, vogliono poter dire all’opinione pubblica d’oltreoceano che anche gli alleati stanno facendo la loro parte e che le spese per la difesa occidentale vengono ripartite equamente o quasi, non gravando del tutto sui contribuenti Usa. Premesso questo, è nell’interesse dell’Italia spendere adeguatamente per la difesa, al di là delle pressioni esterne, tanto più quando alcuni programmi – come l’F35 – hanno il pregio non solo di equipaggiare le nostre forze armate col meglio che c’è sul mercato ma anche di dare lavoro a imprese italiane.



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