Vivo a Bari, in centro, dalle parti del lungomare e del teatro Petruzzelli. A un certo punto, andando dal teatro verso il mare, la strada si apre all’orizzonte perso dell’acqua e al mattino, se c’è il sole – cosa non più scontata con le metereologie esagerate dei tempi nostri – è un tripudio abbacinante di luci. Questa mattina il sole c’era e, in quel tratto di lungomare, c’erano anche i ragazzi. Tanti, giovanissimi, con i cartelli colorati e le facce pulite. Uno dei 208 cortei italiani, una delle 1769 piazze del mondo, invase dai ragazzini per salvare il pianeta dalla rovina ecologica indotta. I media si sono impadroniti della ragazza-simbolo di questa protesta educata (ed uso la parola con la sua estensione concettuale più piena, nel senso della consapevolezza che deriva dall’aver imparato), Greta Thunberg, la sedicenne svedese che ha sfidato i potenti del mondo a fare qualcosa di senso prima che il mondo collassi. Ed è stato persino facile innamorarsi di questa eroina fragile eppure durissima, che va davanti al Parlamento svedese con cartelli su cui ha scritto”non vogliamo speranze ma azioni”, quasi una bambina che scava nel mito eterno del Davide in lotta con Golia. Così adulta, però, da venir proposta per il Nobel. Amare Greta è facile, perché così, senza troppa fatica, ognuno lava qualcosa della sua cattiva coscienza di cittadino, di politico, di giornalista, di decisore, senza impegnare troppo di se’.
Greta ha trascinato milioni di ragazzi in un’impresa pulita (e anche qui l’uso della parola ha senso pieno), ripristinando un protagonismo giovanile globale che si affacciò alla storia l’ultima volta cinquant’anni fa con una generazione che oggi è ormai di nonni in lotta con la quota cento, e l’ha fatto con il web. In una progressione da manuale di comunicazione, i social media sono rimbalzati sui media tradizionali, come i giornali, la tv e la radio, per tornare al giro virale del web che ne ha moltiplicato l’effetto facendo sì che assumesse dimensioni planetarie. Bravissima Greta: hai dimostrato che c’è un uso possibile della rete che non produce banalità, decorticazione celebrale e assuefazione.
Purtroppo oggi è accaduto, dall’altro lato del mondo, in Nuova Zelanda, qualcosa di orribile che, purtroppo, fa della rete un elemento costitutivo del fatto stesso: un ventottenne australiano bianco, tal Tarrant, ha compiuto una strage in due moschee uccidendo 49 persone e ferendone una cinquantina. Non pago dell’atto, scellerato in se’, ha ritenuto necessario documentarlo in diretta streaming su Facebook, pubblicando anche manifesti deliranti contro gli immigrati e l’Islam. Ha firmato gli omicidi incidendo sui caricatori Luca Traini, il nome dell’italiano che lo scorso anno ferì sei persone a Macerata rispondendo ad un insopprimibile impulso razzistico, che comincia a non essere più così raro ed isolato se fa comodamente giri del mondo in web, provocando persino dediche omicide. La strage era stata minuziosamente pianificata e annunciata on line, e, quel che è peggio, parrebbe anche condivisa da quattro altre persone, tre uomini e una donna, arrestati dalla polizia neozelandese. Che dire?
Due possibili effetti collaterali legati all’uso della Rete lanciata a tutta velocità sul mondo globale: il primo, consapevole e istruito, per lanciare messaggi evolutivi. Il secondo per lanciare richiami di barbarie, ottusa e omicida. Nella storia dell’uomo c’è bellezza, solidarietà, desiderio di evolvere ma anche barbarie, istinto omicida, bruttezza e ottusità. C’è il dottor Jekyll ma anche mister Hyde. Quel che prima non era compreso nel bouquet era la velocità e la pervasività del web, che fa da moltiplicatore estremo di tutto. Ora c’è, nella doppia versione di pericolo estremo e di grande opportunità. Cerchiamo di tenerci stretta l’opportunità. Ma neutralizziamo, per favore, mister Hyde.