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La strada interrotta di Aldo Moro

Oggi ricorrono quarantuno anni dalle strage di via Fani, in cui le brigate rosse uccisero i cinque uomini della scorta di Aldo Moro, prima di rapirlo e tenerlo rinchiuso in “una prigione del popolo” per 55 giorni. Il 16 marzo del 1978 era giovedì mattina e quei militi che accompagnavano “il Presidente” erano i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci; gli agenti della Polizia di Stato Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Per anni questi uomini hanno accompagnato Aldo Moro a Terracina, dove lo statista alla fine degli anni Cinquanta aveva acquistato due appartamenti e dove si ritrovava con la famiglia e con quelle dei suoi fratelli e sorelle, soprattutto d’estate. A Terracina erano tornati proprio nel fine settimana precedente a quel 16 marzo, perché “il Presidente” aveva promesso di far vedere il mare all’amato nipotino di due anni, Luca Bonini, figlio della primogenita Maria Fida. Esiste una bellissima foto in bianco e nero che ritrae i due affacciati sul terrazzo dell’edificio dai mattoncini rossi alla fine del Lungomare Circe, il più grande con un semplice maglioncino sulla camicia, il piccolo col cappuccio del “Montgomery” calato sulla testa.

Quella mattina del 16 marzo Luca Bonini si era risvegliato nella casa in via del Forte Trionfale 79 a Roma, perché la mamma l’aveva lasciato dormire a casa dei nonni. In quel l’appartamento non c’è la secondogenita dei Moro, Anna Maria, ma ci vivono ancora gli altri figli Agnese e Giovanni. La prima saluta il papà che si rade la barba attraverso la porta chiusa del bagno e si reca al suo lavoro all’archivio della Cisl; il secondo riesce a vederlo, prima di uscire, dalla porta socchiusa col volto insaponato (si erano incrociati alle due di notte ed il papà era in poltrona intento a leggere il Dio crocefisso del protestante Jurghen Moltmann); Maria Fida riprende con sé il figlio Luca e saluta i genitori; Eleonora Chiavarelli, moglie del “Presidente” scende in ascensore per raggiungere a piedi la vicina parrocchia di San Francesco. Aldo Moro, in doppio petto scuro, camicia a righe sotto il panciotto, cravatta blu, cappotto nero, scende da casa per prendere posto nel sedile posteriore della Fiat 130 con a bordo i carabinieri Ricci e Leonardi. Dietro l’Alfetta bianca con gli agenti Iozzino, Rivera, Zizzi. Le due auto erano dirette alla Camera dei Deputati, dove alle ore 10 si doveva votare a fiducia al governo guidato da Giulio Andreotti, un esecutivo che sarebbe nato con l’appoggio del Partito Comunista. Ma quel piccolo convoglio non arrivò mai in piazza Montecitorio, perché fu assaltato dai terroristi delle Br all’incrocio tra via Stresa e via Fani.

CHI È STATO ALDO MORO

Aldo Moro è stato tante cose. Ha fatto parte di quella generazione di giovani che, dopo la violenza e l’ottusità della dittatura fascista e dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale e del nazismo, si è dedicato ad aiutare la nascita di un Paese democratico, in cui le donne e gli uomini potessero vivere a pieno il loro destino di libertà consapevole e di grandezza morale. Moro ha preso parte ai lavori dell’Assemblea Costituente, e ha contribuito a scrivere la nostra Carta costituzionale. Studioso e professore di diritto penale, ha insegnato con passione tutta la vita, a Bari e Roma, e lavorato per formare centinaia di giovani che ancora ricordano i suoi insegnamenti, e lui con stima e affetto.

Alla fine degli anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta è stato presidente della Fuci, l’associazione degli universitari cattolici, che, anche grazie a lui, mantenne, nonostante il governo fascista, profondità culturale, autonomia e spirito critico, preparando quello che sarebbe stata una parte importante della nuova classe dirigente. Fu invitato a impegnarsi nella dimensione politica dal suo vescovo. È stato sottosegretario agli Esteri; ministro di Grazia e Giustizia, della Pubblica istruzione, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri.

Ha lavorato, da segretario politico della Democrazia cristiana e da presidente del Consiglio dei ministri, a fare in modo che né individui, né organizzazioni, né ceti, né popolazioni si sentissero estranei alla vita democratica e alla convivenza civile né in Italia, né all’estero. Questo e la creazione di una vita prospera e pacifica per tutti, dentro e fuori i confini d’Italia, fu tra gli intenti della politica del centro-sinistra degli anni Sessanta, della quale egli fu tra i protagonisti, così come del coinvolgimento del Partito comunista, nella seconda parte degli anni Settanta, nella responsabilità di rendere governabile un Paese come il nostro nel quale si fronteggiavano due grandi partiti, praticamente equivalenti in termini di consenso elettorale e di influenza culturale. Non si stancò mai di lavorare per creare dialogo, comunicazione, comprensione, rispetto reciproco, convincimento tra gli attori istituzionali e tra questi e gli attori sociali. Vide e comprese profondamente il nuovo che era presente nella società già dagli anni Sessanta. Ne segnalò le enormi potenzialità e i rischi.

MORO E TERRACINA

Il legame che unisce la famiglia Moro a Terracina ha avuto inizio alla fine degli anni Cinquanta. Col tempo quella frequentazione si è talmente consolidata che, a metà degli anni Sessanta, al leader Dc è stata conferita la cittadinanza onoraria. Nell’estate del 1959 l’onorevole Moro, Segretario politico della Democrazia cristiana, affittò un appartamento dal professor Alfredo Perugini: dalla casa si vedeva il mare. Solo successivamente il “leader” Dc decise di acquistare due appartamenti vicini alla fine del lungomare. I Moro si erano organizzati per stare tutti insieme nei pressi della spiaggia: il fratello Carlo, abitava al primo piano dell’edificio al termine di viale Circe; gli altri due fratelli dello statista Salvatore e Marina poco distante. Moro era apparso a Mario Pendinelli, allora cronista al Mondo di Benedetti, che era andato a trovarlo in quella casa, come un bronzo egizio più antico della storia. Infatti, rimaneva per ore sotto i raggi del sole, fisso ad ammirare il profilo del monte Circeo. Le figlie, allora adolescenti, ricordano tuttora la luce del pomeriggio che filtrava dalle tapparelle abbassate e quella sagoma immobile che si distingueva sul balcone.

Aldo Moro camminava per due ore al giorno, dovunque si trovasse: a Roma, intorno allo stadio dei Marmi; per i sentieri di Bellamonte (in Val di Fiemme, dove la famiglia ha passato qualche periodo di vacanza) e Torrita Tiberina (dove i Moro avevano un’altra casa in cui trascorrevano solitamente le ferie pasquali; nel cimitero di questo paese in provincia di Roma è sepolto lo statista); a passo sostenuto lungo il viale Circe di Terracina: amava ascoltare le persone che incontrava lungo il percorso, ma soprattutto si godeva la luce e pensava assorto: amava molto quelle passeggiate e quel sole, perché sosteneva che la forza non era nel calore, ma nell’allegria che trasmette ai suoi affezionati. Appena il nipote adorato, Luca, il figlio della primogenita Maria Fida, compì un anno, cominciò ad accompagnare il nonno in diverse uscite. Oreste Leonardi, maresciallo dei carabinieri ucciso proprio il 16 marzo, tornava spesso dalle passeggiate sul lungomare col nipotino del “Presidente” addormentato in braccio. Il “leader” democristiano era inseparabile dal suo caposcorta e dai suoi quotidiani. I giornali lo seguivano anche a Terracina, in vacanza. Agnese, la terza figlia ricorda nel 2003 in Un uomo così che verrà ripubblicato quest’anno da Rizzoli, come i quotidiani fossero talmente invasivi che esiste perfino una bellissima fotografia in cui il fratello Giovanni, piccolo, ci si è addormentato sopra.

Il 24 agosto 1972 Panorama pubblica un bellissimo fotoservizio di Moro nella città tirrenica: le immagini scattate da Vezio Sabatini ritraggono il ministro degli Esteri in giacca bianca avorio e cravatta scura, un soprabito blu sottobraccio, le scarpe lucide insabbiate fino al tacco, il passo lesto ed il viso disteso e sorridente. Sul lungomare Circe saluta cordialmente un terracinese in calzoncini corti e bicicletta al fianco. All’inviato del settimanale che lo intervista, Guido Quaranta, confida “Avevo proprio bisogno di questo provvido periodo di vacanza”. Dal 1969 Moro è finito all’opposizione interna della “Balena bianca”. Le sue critiche ai vertici democristiani, pur nella loro moderazione, si fecero più aspre e trapelarono anche da articoli sul Giorno a cui cominciò a collaborare proprio dal 1972 per avere, come lui sosteneva, un rapporto diretto con i lettori al di fuori dai tradizionali canali assicurati dalla politica.

Anche la sua vita privata ne risentì di questo nuovo “status”, perché cominciò ad aver una miglior cura di sé stesso, dimagrendo ed essendo meno ingessato nelle sue uscite esterne: riflettendo ed ascoltando ancor di più, andando in spiaggia davanti casa con dei completini a manica e calzoncini corti, passando più di un’ora seduto sulla sdraio pieghevole fissata sulla sabbia. Col senatore Vittorio Cervone, come ogni estate, avrebbe preso parte con le rispettive famiglie alla gita all’isola di Ponza da raggiungere a bordo di un peschereccio. Nel mese d’agosto è ancora possibile incontrare la moglie, Eleonora Chiavarelli, seduta nello stesso tratto d’arenile davanti la sua abitazione, intenta a lavorare a maglia o ad ascoltare i tanti nipoti che passano con lei parte delle vacanze estive. Le forze dell’ordine tornarono a cercarlo in questo luogo di vacanza alla fine di marzo. Era il 27, giorno di “Pasquetta”. L’operazione fu coordinata dal giudice Luciano Infelisi ed interessò, come batterono le telescriventi dell’agenzia giornalistica Ansa, una zona delimitata a nord da Tarquinia e a sud da Terracina.

LA FORZA DEL DIALOGO

Aldo Moro sosteneva che siamo tutti impegnati, ognuno a suo modo, a escludere cose mediocri per far spazio a quelle grandi: questa tensione compare soprattutto nei suoi articoli giornalistici, che iniziò a scrivere dal 1937, ancor prima di laurearsi, su Azione Fucina, e che continuò a proporre con continuità fino al sequestro e alla morte. Quando Moro fu rapito, in una delle sue borse furono trovate le bozze di un articolo per Il Giorno che fu pubblicato postumo. Dalla sua pubblicistica emerge il profilo di un uomo che ha fatto del dialogo il valore di riferimento del suo impegno sociale.

A 30 anni dal sequestro e dall’uccisione dell’allora Presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana quegli scritti rappresentano ancora un punto di riferimento per la crescita civile e politica del Paese. Non esiste democrazia, scriveva Moro, senza verità e giustizia. Senza questi due valori è come se la democrazia poggiasse sulla sabbia. Si tratta di una testimonianza di vita, oltre che giornalistica. Moro si rivolgeva ai giovani cattolici, usciti dalle asprezze della dittatura fascista e prendeva spunto dall’insegnamento presente in “Umanesimo integrale”, di Jacques Maritain, un testo tradotto da monsignor Giovan Battista Montini, che diverrà poi papa Paolo VI. Quel libro diventò il sestante di alcuni gruppi che si apprestavano a diventare classe dirigente, a ricostruire il Paese che aveva sofferto la guerra, ad agire associando la cultura alla formazione e all’impegno politico. Dalla pubblicistica di Aldo Moro emerge anche un altro profilo del carattere, quello dell’educatore. La moglie Eleonora è sempre rimasta convinta che la vera vocazione del coniuge fosse quella dell’insegnante. Dagli scritti di Moro emerge il grande valore che attribuiva alla educazione e alla conoscenza, quasi come un elemento di riscatto rispetto al disagio. Ma Aldo Moro era un insegnante atipico: non solo teneva lezioni di diritto, ma si interessava alla vita dei suoi studenti; era attento alle loro problematiche personali e familiari; li invitava alla Camera per seguire i lavori parlamentari nelle fasi in cui guidava l’esecutivo. Era il segno di una profonda vicinanza. Il giorno in cui venne rapito, aveva in programma la discussione di dieci tesi di laurea che aveva con sé in auto e che furono ritrovate insanguinate.

Da prigioniero chiese alla famiglia di scusarsi con i suoi studenti. Aveva, inoltre, una dote speciale ed oggi sempre più rara: una grande capacità di ascolto, si appassionava alle persone. Ognuno era al centro della sua attenzione. Era curioso, voleva sapere, cercava il confronto, il dialogo. E, dai suoi articoli, emerge anche come riusciva a comprendere le trasformazioni sociali. Aveva compreso il rilievo del Sessantotto, che si annunciavano tempi nuovi. Quell’anno, prima di lasciare Palazzo Chigi, al termine del suo terzo governo, convocò le organizzazioni giovanili studentesche per capire da loro come interpretavano quel cambiamento. Anche dagli scritti giornalistici di Aldo Moro è possibile ricavare una eredità. Consiste nel fatto che non si è mai nascosto la verità: ha sempre creduto nel principio che ogni individuo ha un suo spazio di libertà all’interno del quale esercitare la sua funzione di testimonianza, di azione politica, di ruolo attivo. Anche quando era prigioniero dei suoi aguzzini, Moro riusciva a trovare uno spazio di libertà e testimonianza: in ciò che scriveva c’era sempre una prospettiva e un dialogo che cercava di tessere.

Quelle lettere, scritte in uno spazio ristretto e in una condizione di sofferenza, appartengono in pieno alla pubblicistica di Aldo Moro e riflettono il suo stile e i contenuti di un uomo politico, ma non solo, che ha un’anima e che mantiene la propria fede. Aldo Moro è stato un vero leader perché ogni sua azione è sempre stata mossa da una visione di prospettiva. Questa prerogativa lo ha caratterizzato fin da giovane. Dopo l’armistizio, utilizzando la sua esperienza di Presidente degli universitari cattolici gli venne chiesto di lanciare un messaggio agli studenti via radio da Bari. Moro lavorava all’ufficio stampa di Badoglio e anche la sua futura moglie, con cui aveva perso i contatti da mesi, perché l’Italia era divisa in due (lei si divideva tra Roma e le Marche), ascoltò la sua voce, comprese che stava bene ed intuì che presto avrebbero potuto ritrovarsi. Questo stato anche di natura familiare rende l’idea di ciò che hanno vissuto le giovani generazioni nel dopoguerra e, come, proprio da i tanti disagi, separazione fisica compresa, nasce l’energia morale e politica su cui si sono costruite le fondamenta dell’Italia repubblicana e democratica. Nel suo messaggio ai giovani studenti, lui che di anni ne aveva solo ventisette parla da leader che cerca di condividere le speranze di quanti lo ascoltano, coinvolgendo quelle persone rispetto al rapporto che avrebbero avuto col loro futuro. “Troppe volte – dice Moro ai microfoni – troppe volte, specie negli ultimi anni, c’è stato chi, pur coscientemente sapendo di dire il falso, ha parlato di voi. Voi siete apparsi così i credenti di una fede che non sentivate, i sostenitori di una causa che non era la vostra. S’è ricorso al vostro nome come richiamo, coscienti che senza la vostra partecipazione, senza la vostra fiducia, indebolita sarebbe apparsa ogni opera di persuasione della massa. Oggi, nell’ora di rinascita della Patria, voi siete presenti ed attivi col vostro vero cuore in questa dolorosa primavera. Voi siete anzi di questo tempo di riscossa, non solo gli artefici insostituibili, ma gli anticipatori. La più oscura e triste età della nostra storia nazionale è finita soprattutto per la reazione del vostro spirito che in libertà ha giudicato e condannato”; il messaggio contiene le indicazioni sulla scelta di campo da compiere: “Il dovere che vi incombe è perciò di ritornare spiritualmente fervidi, di esprimere in opere concrete la gioia creatrice del vostro spirito. Ancora una volta, ed ora finalmente per una causa giusta, si fa appello a voi, vi è chiesto di esprimere la vostra convinzione nell’azione concreta. Contro il tedesco invasore c’è da riconquistare la nostra libertà. Il vostro sforzo sorretto dalle forze armate degli alleati, ispirato dalle tradizioni di eroismo del nostro esercito, ridarà all’Italia la sua libertà e le consentirà di sviluppare la sua vita nazionale nella linea della sua grande tradizione”.

Moro dimostra che il leader è una benedizione che va meritata, caratterizzata da capacità di ascoltare le parole, i silenzi e la voglia di guardare, anche dove gli altri distolgono lo sguardo. Insomma, grandezza ed umiltà insieme. Il suo agire prova come la vita istituzionale e politica di un Paese debbano poter contare su uomini capaci di essere creatori di attese, perché ampliare il territorio delle aspettative fa correre positivamente le speranze, riempie le voglie di futuro, mobilita le risorse. Lo statista ripropone il tema delle élite che hanno la responsabilità etica e civile di risollevare la democrazia e di non far morire la speranza. Ciò è evidente in un’intervista radiofonica trasmessa il 22 maggio 1973 in cui rappresenta l’impegno del cristiano nella realtà sociale attraverso l’insegnamento di Jacques Maritain, il suo ‘faro’ culturale. “L’influenza di Maritain -dichiara- sul mondo cattolico italiano si è andata manifestando negli anni precedenti la seconda guerra mondiale e poi, in modo sempre più intenso, dal momento della ripresa della vita democratica in Italia. A Maritain si rivolgevano in particolare coloro che, nelle organizzazioni di Azione cattolica, tra le quali voglio ricordare per la mia personale esperienza quella degli universitari e dei laureati, formavano una coscienza religiosa e insieme una civile. Erano gli anni del fascismo. Man mano che i cattolici diventavano più consapevoli del fatto che, ad una scadenza non lontana, sarebbe toccato loro di concorrere alla guida della comunità nazionale. Ed erano sollecitati e preparati proprio dai maestri come Maritain. Naturalmente, questa stessa esperienza veniva vissuta da coloro che, nel partito popolare, avevano già militato nella politica e restavano coerenti alle proprie idee. Sono questi i due filoni, confluiti nel raggruppamento dei cattolici democratici, i quali hanno operato nella vita italiana degli ultimi trent’anni”.

Sempre da quella intervista radiofonica sostiene: “L’influenza di Maritain sui cattolici italiani si manifesta attraverso alcune idee dominanti elaborate con rigore intellettuale e presentate con singolare forza emotiva. C’è, innanzitutto, il richiamo all’autonomia e, per così dire, al valore proprio della realtà temporale. Non si può guardare con indifferenza alla società, ai rischi di divisione e di ingiustizia, alle ragioni di unità, al destino politico. Lo scopo che il cristiano si propone, riteneva Maritain, non è di fare del mondo il regno di Dio, ma di esso, secondo l’ideale storico delle diverse età, un luogo di vita pienamente umana, le cui strutture sociali abbiano come misura la giustizia e la dignità dell’uomo”. Continua Moro: “I caratteri pluralistico, personalistico, comunitario della società, che Maritain propone al cristiano nell’assolvimento del suo compito politico, sono espressione di originali esigenze e promuovono originali modi d’azione. Venne da qui uno stimolo ad agire e, in un certo senso, per quanto grandi fossero i rischi, ad agire insieme. E vorrei ricordare, pensando a questa essenziale originalità che concorre a definire l’impegno del cristiano nella realtà sociale, la critica penetrante e pacata al capitalismo; la critica all’indifferenza dimostrata da tanti cristiani, come rilevava Maritain, all’epoca della giovinezza barbara e conquistatrice del capitalismo, verso la legge della condotta cristiana nel comportamento sociale. E si deve deplorare il fatto, aggiungeva, che il posto che il socialismo ha trovato vacante e occupato con molti errori, non era stato occupato invocando una filosofia sociale fondata sulla verità, da forze d’ispirazione cristiana, che avessero dato il segnale dell’emancipazione del lavoro. Non vi era qui un’indicazione precisa? Come vi era un’indicazione precisa nel senso della convivenza e della tolleranza”.

Moro ai microfoni della radio rilascia il suo convincimento profondo: “Nel sistema dell’umanesimo cristiano di Maritain non c’è posto per gli errori, ma per coloro che, malgrado gli errori, hanno contribuito nella storia degli uomini a certi accrescimenti. Ed il dialogo, ogni dialogo è aperto. Eravamo chiamati ad andare al di là della mera tolleranza, della mera ammissione del dissenso per un incontro più profondo, per una autentica dialettica democratica. Possiamo dire davvero oggi che egli ci ha stimolato, intellettualmente e moralmente, come forse nessun altro in questa età ad una nuova esperienza cristiana e ad un nuovo modo di essere al mondo”. Moro conclude così il suo ricordo: “Ci era stata attribuita una precisa funzione. Per dirla con Maritain, il compito di agente di unità e formazione, che il monarca svolgeva verso la città di un tempo, deve svolgerlo verso il nuovo ordine temporale, la parte più evoluta politicamente e più devota del laicato cattolico e delle élites popolari. Abbiamo cercato di fare quel che ci era stato proposto come un dovere”.

Nella vita politico-istituzionale i cittadini spesso avvertono la mancanza del ruolo delle attuali élite, rispetto ad una missione teorica di tutela e promozione di virtù civili, ascrivibili in via generale al bene collettivo e agli interessi condivisi di una comunità. Ecco, perché le parole di Moro, promotrici di speranza, esortano all’attuazione di un’etica della convinzione che lasci spazio alla vita nella sua globalità, all’intreccio di esperienze, intelligenze, saperi e passioni, perché, come scriveva in uno dei suoi ultimi articoli sul Giorno, “Il politico non ha solo il compito di non guastare quel che la vita sociale, nel suo evolvere positivo, va di per sé costruendo. Tra la disponibilità e la realtà, tra la ricchezza di base e la composizione armonica nel contesto sociale vi è uno spazio molto vasto (e ricco di problemi di ogni genere), il quale ha da essere occupato da un’indispensabile e lungimirante iniziativa politica. Moro è stato un “leader” dalla alta capacità d’ascolto: il suo pensiero e la conseguente decisione nell’agire sono frutti che nascono dalla disponibilità ad ascoltare gli altri, confrontarsi e discutere. Ha dato origine ad una storia: un racconto significante per quelli che hanno avuto modo di avere a che fare con lui e che ha sorretto molti all’interno di una trama che prevedeva un ruolo per ognuno. Sono questo tipo di narrazioni che creano i miti e consentono a uomini illuminati di entrare nell’immaginario come luoghi che fanno accadere le cose, che consentono ai pensieri di realizzarsi e alle persone di recitare la loro parte. Uomini come Aldo Moro che hanno animato gli intrecci, dipanato le trame, disseminato gli eventi come occasioni di incontro e di scambio significativi. Uomini che, soprattutto, sono stati dei grandi dispensatori di tempo, dedicandosi ai problemi, ai rapporti, alle persone. Perché ci vuole tempo per trovare la strada dell’anima: sia quella dei singoli, che delle comunità;sia delle istituzioni, che delle associazioni politiche. “L’anima non si concede mai a prima vista: ha i suoi riti, i suoi ritmi. Va stanata. Bisogna trovare il modo e l’arte di far vibrare delle corde in gran parte dimenticate, fino a rimescolare emozioni, pensieri, sentimenti. Liberando finalmente ciò che vive nel profondo e legittima ogni cosa”.

L’ALLEGRIA CHE IL SOLE DISTRIBUISCE AI SUOI AFFEZIONATI

Moro ha avuto la capacità di cercare la strada dell’anima, in ciascuno che incontrava e sapeva ascoltare. Una condizione che era ricorrente nel corso delle sue passeggiate, uno spazio che definirei proprio dell’anima, dove si distendeva “ruminando” mentalmente intuizioni e cogliendo utili suggestioni. Quei passi davanti al mare costituivano, come lui stesso sosteneva una forza ripeto “non tanto per il calore, ma per l’allegria che il sole distribuisce ai suoi affezionati”. Ecco perché è bene ricordare le persone che custodivano Aldo Moro e lui stesso non con le tragiche immagini del 16 marzo in via Fani, o del 9 maggio in via Caetani, ma sotto il sole di Terracina, su quel lungomare, “pieni di vita e sorridenti” come ha scritto Giovanni Ricci, figlio di Domenico e come li ritrae la foto che accompagna questo articolo. In una delle ultime lettere dalla prigionia Aldo Moro, pensando a quel che gli sarebbe accaduto a breve,confidò alla moglie “Noretta”: “Se dopo ci fosse luce sarebbe bellissimo”. Dove c’è luce, rimane la vita che è memoria, ma soprattutto speranza per il futuro.


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