Le elezioni regionali hanno dato risultati univoci e concordanti. L’alleanza di centrodestra vince, presentandosi unita su temi fondamentali dell’attuale scenario politico: crescita, sicurezza, immigrazione, tasse, autonomie. Al suo interno la Lega miete consensi, per la leadership di Salvini, la visibilità di governo, la primazia su temi caldi come l’immigrazione e la sicurezza. Forza Italia si indebolisce ma resiste, legando le sue sorti alla figura di Berlusconi, meno carismatico ma indomito. Fratelli d’Italia presidia la sua area politica.
I 5 Stelle perdono sonoramente e falliscono la sfida al sistema. Devono scendere a patti, come hanno fatto a livello nazionale, se non vogliono diventare irrilevanti. Sono obbligati a essere sempre meno diversi dagli altri partiti e a sottoscrivere alleanze, sporcandosi le mani e rinunciando alla purezza rivoluzionaria.
Il Pd continua a pagare le colpe di una sfortunata stagione di governo, segnata da una politica dell’immigrazione invisa alla maggioranza della popolazione, da un’opprimente identificazione con la casta, dall’incapacità di dare risposte ai bisogni dei ceti popolari di riferimento. Non tracolla e in alcuni casi si rianima, facendo leva sullo zoccolo duro della sinistra storica, su frange di voto cattolico e sull’organizzazione di partito.
In questo contesto, il governo gialloverde resterà in sella fintanto che i due partiti di maggioranza non pagheranno un prezzo troppo alto. Salvini manterrà Conte a Palazzo Chigi fino a quando lo lasceranno libero di agire su immigrazione, sicurezza e autonomie, suoi irrinunciabili cavalli di battaglia. E già sul tema autonomie lo scontro con i 5 Stelle può portare alla crisi. I grillini non capitalizzeranno più di tanto il reddito di cittadinanza e si terranno stretti il governo, per evitare un disastroso ritorno alle urne. Col risultato di continuare a dissanguarsi sia a destra sia a sinistra, rischiando di implodere da un momento all’altro.
La resa dei conti nel governo potrebbe avvenire all’indomani delle elezioni europee, quando saranno ridisegnati gli equilibri politici del Paese. Ma non è detto: se il voto europeo confermerà i sondaggi, i partiti di governo avranno posizioni di forza ribaltate rispetto al marzo 2018 ma manterranno una risicata maggioranza dei voti nazionali. A quel punto la dinamica degli interessi potrebbe restare la medesima e trascinare l’esecutivo ancora avanti, magari con un nuovo contratto di governo, aggiornato sui desiderata di Salvini, sempre più padrone del campo. Almeno fino all’autunno della Tav e delle scelte di bilancio, con i problemi di recessione, aumento dell’Iva, deficit.
La crisi sopraggiungerà comunque, ineluttabile, per le divisioni interne alla maggioranza e per la pressione della situazione economica.
La Lega spingerà per un ritorno alle urne, per trasformare il consenso politico in parlamentari nazionali, tornando nell’alveo del centrodestra. I 5 Stelle, reduci dalla separazione con la Lega e ormai rassegnati ad essere un partito come gli altri, non potranno far altro che tentare la carta di un accordo con l’odiato partito democratico, unica alternativa al temuto ritorno alle urne.
Nicola Zingaretti diventerà determinante. Con un Pd in ripresa e desideroso di tornare al governo, potrebbe convincere i capicorrente riluttanti a tapparsi il naso e abbracciare Di Maio o il suo successore, in nome di una crociata contro Salvini e la destra. I voti in Parlamento, se il Pd riuscirà a restare unito (e non è affatto certo), ci sarebbero e potrebbero sostenere un esecutivo debole, non corrispondente alla maggioranza politica del Paese, diviso da dissidi non di poco conto, ma unito da interessi partitici evidenti: evitare le elezioni e il ritorno al potere del centrodestra. Oppure potrebbe alzare la bandiera della coerenza e dell’orgoglio, rifiutare un accordo e avanzare un’Opa ostile sui voti grillini di sinistra, aprendo la porta a un ritorno al bipolarismo.