Da mesi si discute delle conseguenze della sconfitta militare dell’Isis, del ritorno dei combattenti, della sorte di quelli catturati, dei rischi per l’Occidente. Il ritorno dei foreign fighters, le condizioni di instabilità di alcuni Paesi e le difficoltà economiche di altri possono aggravare il rischio jihadista costringendo ad affrontarlo in maniera sempre più incisiva. “L’evoluzione della radicalizzazione nel Maghreb all’indomani della sconfitta di Daesh” è il titolo del report realizzato dal Cesi, Centro studi internazionali, in collaborazione con Itstime, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e curato da Lorenzo Marinone del Cesi. Nella Grande Moschea di Roma, in un incontro moderato da Daniela Di Marzo, si è dunque discusso delle sfide per l’Italia e per l’Europa che dovrebbero portare a un approccio “non solo muscolare, ma di coesione politica nella lotta al terrorismo” secondo Andrea Margelletti, presidente del Cesi, coesione che manca “per l’ambiguità di tanti Paesi”.
È la debolezza politica in tante aree, e segnatamente del Maghreb, a favorire la radicalizzazione e una “fragilità statuale di cui comprendere le cause” in modo che anche il ministero degli Esteri possa “scegliere il modo migliore di intervenire”, ha spiegato il ministro plenipotenziario Armando Barucco. Il report analizza in dettaglio la situazione politica e sociale di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto e Sahel, oltre ai rischi per l’Italia e l’Europa: per Marinone “il radicalismo attecchisce nel Maghreb perché le aspettative di una vita migliore e di una riduzione delle disuguaglianze non sono state esaudite” ed è anzi aumentata la marginalizzazione. Va capito che l’adesione all’estremismo jihadista spesso non è ideologica, ma fatta per necessità e Marinone l’ha definita “radicalizzazione funzionale”, che si declina cioè in maniera diversa in base alle necessità locali.
Marco Maiolino, ricercatore dell’Itstime, ha ricordato che c’è il rischio di qualche infiltrazione tra gli immigrati, come hanno dimostrato i due arresti dell’anno scorso nel Napoletano di soggetti addestrati in Libia, così come Gabriele Iacovino, direttore del Cesi, nel report analizza il fenomeno degli “sbarchi fantasma” che preoccupano l’antiterrorismo: piccole imbarcazioni che arrivano soprattutto dalla Tunisia per un totale di circa 7.700 individui tra il 2017 e il 2018 oltre a un numero analogo ipotizzato per sbarchi non individuati. Per Massimo AbdAllah Cozzolino, segretario generale della Confederazione islamica italiana, “è fondamentale il dialogo con le altre religioni e con le istituzioni” mentre Francesco Antonelli, dell’Università Roma Tre, ha spiegato che oggi in Italia la mancanza di integrazione non riguarda solo gli immigrati, ma anche i ceti popolari e la domanda che i sociologi si pongono è perché un individuo diventa terrorista mentre fino agli anni Settanta ci si chiedeva perché le società producessero terrorismo.
L’attenzione maggiore l’ha avuta l’ambasciatore del Marocco, Hassan Abouyoub, con un’analisi senza peli sulla lingua: il concetto di radicalizzazione come viene intesa oggi “è stato scoperto 20 anni fa” perché, per esempio, anche “gli Etruschi ebbero delle difficoltà con l’emergere di Roma” e non ha avuto problemi nell’attaccare gli Stati Uniti, citati come quel “grande Paese” che creò al Qaeda per abbattere i sovietici in Afghanistan. La sua definizione dell’attuale radicalismo è “antisistema” e la radicalizzazione “è un comportamento individuale”: il Marocco nel 1950 aveva un reddito pro capite di circa 130 dollari, ma non aveva problemi, mentre ora il reddito pro capite è di 1.000 dollari “e abbiamo la radicalizzazione” che si cerca di contrastare con i pentiti e con l’aiuto delle famiglie. L’accusa maggiore riguarda l’Europa, Italia compresa: i minori vanno aiutati a integrarsi altrimenti “tra 15 anni saranno una bomba atomica”.