La riduzione del numero dei parlamentari è un po’ come il mito di Persefone. Per sei mesi non se ne parla e poi ritorna prepotentemente sulle prime pagine dei giornali sino a diventare un’esigenza improcrastinabile. La ragione principale è legata ai conti dello Stato con un’equazione semplice: meno parlamentari, più risparmio pubblico. Se la logica è quella della lotta agli sprechi, forse, bisognerebbe trovare delle alternative perché, come sostengono i professori auditi dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, ridurre i parlamentari potrebbe avere effetti deleteri sulla rappresentanza.
Daniele Porena, professore di diritto pubblico dell’Università di Perugia, lo ha detto in maniera chiara. Un’eccessiva riduzione potrebbe essere foriera di due conseguenze: da un lato, avrebbe effetti non trascurabili sul piano dei meccanismi di comunicazione dei candidati nelle campagne elettorali. Con un ampliamento dei collegi uninominali (al Senato si arriverebbe secondo i calcoli a una media di 800 mila abitanti per senatore, con punte di 1.200 mila), il candidato avrebbe bisogno di maggiori risorse economiche per condurre una campagna elettorale efficace. Alternativamente, non potrebbe che diventare facile preda di gruppi e centri di interesse intenzionati ad “investire” su candidati promettenti. Ma di che numeri stiamo parlando?
Nei lavori della Costituzione gli eletti avrebbero dovuto essere in misura fissa rispetto alla popolazione. Pur considerando che ogni parlamentare avrebbe idealmente rappresentato la Nazione nel suo complesso, i costituenti avevano deciso che una frazione di 80 mila abitanti avrebbe dovuto avere diritto a un deputato mentre 200 mila avrebbero fatto un senatore. Nel 1963 fu stabilito, invece, un numero fisso di rappresentanti per ogni Camera. Oggi, facendo un veloce calcolo, si può constatare che abbiamo un deputato ogni 96 mila abitanti circa e un senatore ogni 192 mila. Insomma, nonostante i cambiamenti demografici rispetto all’anno di approvazione della nostra Costituzione, non ci siamo tanto discostati dalla soglia inizialmente desiderata.
Una diminuzione del tasso di rappresentatività dei parlamentari, invece, porterebbe all’alienazione dell’eletto dal territorio, andando a favorire il voto d’opinione in luogo del voto su un candidato poco conoscibile e, così facendo, si impoverirebbe il dibattito politico e si indurrebbe, come sostiene Porena, una “semplificazione dei meccanismi del confronto e della proposta politica”.
Insomma, meno parlamentari significherebbe in ultima analisi un rafforzamento del potere di scelta dei partiti e una maggiore incisività delle poche leadership in grado di emergere. Per non parlare dei rischi per le forze politiche minori, che si troverebbero a dover fronteggiare una soglia di sbarramento implicita più alta.
Ma se il risparmio di soldi è la sola scusante per tagliare artatamente la democrazia, sarebbe più opportuno ridurre le indennità piuttosto che ridurre il numero. Tutto il contrario, d’altra parte, dell’oggetto della contestata proposta del tesoriere Pd, Luigi Zanda. Il senatore, infatti, lo scorso febbraio ha depositato un disegno di legge per equiparare il trattamento economico dei parlamentari italiani a quello dei deputati europei.
Se proprio qualcosa bisogna pur tagliare, allora, resta sempre valida la proposta di porre fine all’unicum tutto italiano del bicameralismo paritario e perfetto. E invece resta l’idea della riduzione del numero dei parlamentari, che è un po’ il Santo Graal dei populisti. Ci hanno provato tutti a modificare gli articoli 56 e 57 della Costituzione, rei di aver introdotto quei “fastidiosi” 630 e 315 deputati e senatori che in epoca di antipolitica chiunque desidera vendicativamente vedere decurtati. Ma, si badi bene, quanto più si rimpicciolisce il numero dei parlamentari, tanto più distante risulta essere il rapporto tra questi e gli elettori. Un’eterogenesi dei fini per chi, nella lotta contro la casta, voleva farsi portavoce “del cambiamento” e della nuova politica.