L’esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, proveniente dalla Cirenaica, nell’est della Libia, ha occupato o conquistato nuovi territori nel sud del Paese e procede verso nord e ovest, direzione Tripoli, con il dichiarato intento di conquistarla.
Si hanno notizie di scontri in prossimità di centri abitati tra milizie di opposti fronti. Fayez Al Sarraj, premier del governo riconosciuto dall’Onu e dall’Italia, ha ordinato incursioni aeree sulle milizie fedeli ad Haftar. Il Gran Mufti della Libia ha appoggiato il governo di Tripoli.
A Tripoli è stato dichiarato lo stato di emergenza e le truppe fedeli al governo sono pronte a respingere attacchi armati. Alcune milizie di Misurata, città sulla costa tra la Tripolitania e la Cirenaica, si sono spostate verso Tripoli per sostenere il governo Sarraj da attacchi delle forze di Haftar. Sono incerte le notizie sul dispiegamento di altre milizie armate, che occupano varie porzioni di territorio libico.
Il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, presente in Libia, ha in corso contatti con i leader locali, per scongiurare uno scontro sanguinoso e facilitare una soluzione pacifica. Donald Trump ha annunciato la nomina di Richard B. Norland come ambasciatore straordinario e plenipotenziario in Libia.
I governi di Italia, Francia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti hanno diffuso una nota congiunta, nella quale invitano le parti a interrompere i combattimenti e allentare la tensione, in prospettiva di una soluzione politica delle controversie.
Il Paese è a un passo dalla guerra civile. O forse no, se sono corrette le analisi che leggono l’iniziativa militare di Haftar solo come un mezzo per rafforzarsi, espandendo il suo controllo sul territorio, in prospettiva della prossima conferenza libica di Ghadames, prevista a metà aprile, finalizzata a portare avanti il processo di riconciliazione nazionale e preparare le elezioni.
Anche perché, dal punto di vista militare, l’avanzata di Haftar mostra delle incongruenze: si tratta di una dislocazione rapida di forze su un ampio territorio, una sorta di guerra lampo, non supportata da linee logistiche adeguate a fronteggiare un eventuale sforzo bellico e, per quanto noto, priva del sostegno di milizie determinanti sul territorio e avversata dalle truppe di Misurata, organizzate e ben armate.
L’escalation militare arriva dopo mesi di contatti diplomatici di vari Paesi, protesi a mediare tra Haftar e Serraj, tra cui la conferenza di Palermo del novembre 2018, in cui Il Premier italiano Conte riuscì a portare i due avversari a stringersi la mano in pubblico. L’apparente fallimento della diplomazia internazionale può essere conseguenza di un riposizionamento degli attori internazionali sullo scenario mediterraneo.
Serraj ha l’appoggio, oltre che dell’Italia, dell’Onu, della Turchia, del Qatar e di esponenti dei Fratelli mussulmani. Haftar ha rapporti privilegiati con la Francia e l’Egitto, interessate da sempre al petrolio libico e al contrasto al radicalismo islamico, e in questo quadro ha sviluppato anche un canale preferenziale con l’Arabia Saudita, in funzione di contrasto al Qatar e alle sue contestate relazioni con gruppi islamici estremisti.
La Russia, vicina alle posizioni di Haftar, è accreditata dalla stampa internazionale di aver inviato uomini e mezzi in Tripolitania, rafforzando le sue posizioni. Gli Stati uniti non hanno finora preso una posizione chiara, neanche dopo l’incontro a Washington tra Trump e Serraj, lasciando spazio di azione alla Russia.
In sostanza, sembra evidente che l’uomo forte della Cirenaica goda di alleati forti e determinati, che lo mettono in condizione di alzare la posta in gioco e chiedere di più al tavolo delle trattative, anche se non conquistasse Tripoli.
In questo quadro complesso, l’Italia ha tentato di ritagliarsi un ruolo diplomatico ed economico, riuscendo a consolidare la presenza dell’Eni in Libia, con rilevantissimi interessi energetici. Tuttavia deve fare i conti con un suo progressivo indebolimento diplomatico: nei rapporti con gli Usa, a seguito delle aperture alla Cina e in parte alla Russia, e per le incertezze sulla vicenda del Venezuela; nelle relazioni con i Paesi europei, a causa del populismo antieuropeista e delle polemiche con Francia e Germania; nei contatti con l’Egitto, dopo le polemiche e la crisi diplomatica col regime di Al Sisi per la vicenda di Giulio Regeni.
In sostanza l’Italia non ha amici su cui poter contare in Libia. Anzi, vari protagonisti dello scenario internazionale hanno interessi confliggenti con i nostri oppure non sono disposti ad aiutare un governo che si è dimostrato poco attento agli storici rapporti di alleanza, determinato a muoversi senza adeguate intese con i partner europei, permeato di una vis polemica controproducente sul piano diplomatico. E difficilmente Russia o Cina si preoccuperanno degli interessi italiani.
Non siamo in grado di fare molto. Esclusa ogni opzione militare, ridotte le nostre opzioni diplomatiche, esigui gli appoggi internazionali, possiamo solo sperare che la situazione non degeneri in una guerra civile, in un caos che metta in pericolo uomini e impianti dell’Eni e riapra le porte al traffico dei migranti.