Skip to main content

Dagli Usa l’altolà ad Haftar. Le mosse di Mike Pompeo per evitare l’escalation

Fayez Serraj, Libia, trenta

Gli Stati Uniti rompono formalmente il silenzio sulla situazione in Libia: il dipartimento di Stato di Mike Pompeo ha diffuso un comunicato che segna la posizione dell’amministrazione Trump a proposito della crisi innescata dallo spostamento verso Tripoli di truppe collegate all’autoproclamato Maresciallo di campo, Khalifa Haftar, signore della guerra dell’Est libico.

Washington si oppone all’azione di Haftar, segnando anche il sostegno al processo di rappacificazione che l’Onu sta ancora (dopo quattro anni) tentando di costruire – processo per ora guidato da Fayez Serraj. “Ci opponiamo all’offensiva militare delle forze di Khalifa Haftar e sollecitiamo l’immediato arresto di queste operazioni militari contro la capitale libica”, dice la dichiarazione di Pompeo – uno dei membri dell’amministrazione statunitense più vicini allo Studio Ovale.

Specificazione fondamentale: “Le forze devono tornare alle posizioni di status quo ante“. Ossia, Washington fa quello che l’Unione europea aveva mancato di fare con la sua dichiarazione di qualche giorno fa: denuncia la mossa haftariana e chiede il ripristino della flebile stabilità sotto cui l’Onu sta lavorando anche in vista dell’importante conferenza di qualche giorno fa.

“Tutte le parti coinvolte hanno la responsabilità di allentare urgentemente la situazione, come sottolineato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dai ministri del G7 il 5 aprile. Questa campagna militare unilaterale contro Tripoli sta mettendo in pericolo i civili e minando le prospettive di un futuro migliore per tutti i libici”.

Il riferimento a “tutte le parti” in causa è necessario, perché dal campo arrivano le notizie del lancio della controffensiva tripolina, dove non tanto le milizie della capitale, quanto quelle della città-stato di Misurata (la parte più consistente delle forze di sicurezza di cui il proto-governo Serraj dispone), hanno trovato nell’avanzata del generale free-lance della Cirenaica occasione per ricompattarsi.

L e forze anti-Haftar (anche pro-Serraj, ma in modo più sfumato) hanno chiamato l’operazione di respingimento”Vulcano di rabbia”. Azione che comunque è andata in violazione alla richiesta di cessate il fuoco avanzata dall’Onu, pur mettendo il Maresciallo sulla difensiva (una ventina di perdite e altrettanti feriti, circa duecento i miliziani hafatariani già catturati: i misuratini dicono di aver riconquistato l’area dell’ex aeroporto internazionale, la strada verso Tarhouna, la zona di al Hira; hanno bombardato e stretto le forze del Feldmaresciallo a Jufra, linea necessaria per il rifornimento).

Continua il comunicato da Washington: “Non esiste una soluzione militare al conflitto in Libia. Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti continuano a spingere i leader libici, insieme ai nostri partner internazionali, a ritornare ai negoziati politici mediati dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé. Una soluzione politica è l’unico modo per unificare il paese e fornire un piano per la sicurezza, la stabilità e la prosperità per tutti i libici”.

Al di là dell’accento semantico sulla parola “prosperità”, scelta lessicale molto trumpiana (è stata utilizzate per 32 volte nell’ultimo documento strategico sulla sicurezza nazionale redatto due anni fa), la linea americana coincide con quella del governo italiano, principale sostenitore della traiettoria onusiana, interlocutore preferenziale di Serraj, e attore dialogante con Haftar. “Stiamo cercando di rappresentare soprattutto al generale Haftar e agli altri interlocutori – ha detto ieri il premier Giuseppe Conte – la necessità di evitare conflitti armati, non possiamo permetterci una guerra civile”.

Due giorni fa, durante la ministeriale Esteri del G7 di Dinard, l’Italia aveva firmato una dichiarazione congiunta con la Francia per chiedere la cessazione delle operazioni militari in Libia e riprendere la “soluzione politica”. Documento arrivato su sollecitazioni della Farnesina. Parigi è formalmente impegnata nel piano Onu (è membro permanente del Consiglio di Sicurezza, d’altronde), ma anche in un coinvolgimento informale, ma più sbilanciato, verso Haftar.

Serraj ha convocato l’ambasciatore francese in Libia – minacciandone l’espulsione – per chiedere conto delle azioni dell’uomo forte della Cirenaica (sebbene i francesi si siano sganciati dalla campagna, come russi ed emiratini, tutti sponsor di Haftar che per il momento hanno fatto un passo laterale, escluso l’Egitto, che potrebbe voler sfruttare l’occasione per giocare un suo ruolo sul dossier).

Roma fin da giovedì scorso, quando le prime milizie collegate ad Haftar (i franchising che la Libyan National Army, la milizia guidata da Haftar, ha piazzato in Tripolitania) hanno cominciato a muovere da sud verso la capitale libica – sede del Governo di accordo nazionale onusiano, il Gna guidato da Serraj – aveva chiesto di frenare, evitare escalation e di riportare tutta la situazione sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Ieri pomeriggio un hovercraft LCAC dei Marines è arrivato a Janzour, hinterland tripolino, e ha evacuato alcuni uomini dei reparti speciali statunitensi presenti nella zona della capitale chiamata Palm City: AfriCom, il comando del Pentagono di stanza Stoccarda che copre le attività nel continente africano, annunciando le operazioni di evacuazione del personale aveva implicitamente ammesso, per la prima volta, che gli Stati Uniti hanno alcuni team militari nel paese.

Con loro sono rientrati i diplomatici: pare evidente che Washington teme un’escalation, per questo potrebbe aver preso certe decisioni (compresa la dichiarazione secca di Pompeo). Tra l’altro l’uso di un hovercraft piuttosto che un elicottero è da ricollegare alla volontà di evitare di esporre il personale al lancio di missili a ricerca di calore, di cui la Libia è piena (al momento non è chiaro dove il mezzo anfibio abbia spostato gli operativi americani).

Sempre ieri, ma in mattinata, un aereo da trasporto civile Bombardier era decollato dalla pista vicino alla base navale statunitense di Souda Bay, a Creta, diretto a Bengasi: la tipologia di aereo è quella usata dagli uomini delle forze speciali americane (e non solo) quando sono impegnati in missioni sensibili dal carattere politico-militare. Bengasi è il feudo di Haftar.

 

 



×

Iscriviti alla newsletter