La tentazione di equiparare i grillini italiani ai pirati tedeschi è molto frequente nel giornalismo nostrano ed è in parte giustificata, visto che molte proposte programmatiche degli uni si ritrovano nel vademecum elettorale degli altri.
Si prenda il programma approvato questo fine settimana al congresso federale della Piratenpartei a Neumarkt, in Baviera. Vi compare il famoso reddito minimo garantito insieme con un salario minimo fissato per legge, l’introduzione dell’istituto del referendum a livello federale e la concessione della doppia cittadinanza. Senza contare l’attacco alla politica tradizionale, il desiderio di trasparenza nella gestione della cosa pubblica, la rete come mezzo privilegiato per la trasmissione dell’informazione e del sapere.
Eppure, se a prima vista le somiglianze sembrano essere tante, la genesi dei due partiti e la loro filosofia è in buona misura diversa. La fiammata politica del partito pirata in Germania è durata lo spazio di poco più di dodici mesi. Dopo i successi in tre elezioni regionali, la novità si è esaurita e pian piano i pirati hanno incominciato ad arretrare anche nei sondaggi a livello federale.
A differenza dei grillini, la Piratenpartei manca ancora oggi di una posizione precisa sulle principali questioni economiche che interessano all’elettorato tedesco: dagli aiuti alla Grecia ai fondi di stabilizzazione, dal ritorno al marco agli acquisti di bond della BCE. Poco chiaro, in generale, è poi l’approccio pirata alla politica economica: ridurre la spesa o aumentare le tasse? Neanche il dibattito scatenato da verdi e socialdemocratici sulla necessità di aumentare la pressione fiscale ha spinto la dirigenza pirata a prendere una posizione.
Oggi, la bizzarra formazione naviga sotto il tre percento e vede allontanarsi il sogno di poter entrare al Bundestag nel settembre prossimo. Con l’avvento della Alternative für Deutschland, i pirati sembrano aver perso anche l’ultima occasione per prendere una posizione sull’Europa, diversa da quella della maggior parte dei partiti. Non a caso l’ex leader pirata Sebastian Nerz è riuscito a declinare le caratteristiche del suo partito soltanto in negativo: «Di fronte a noi abbiamo ancora un sacco di lavoro. Se non ci pensiamo noi, non lo farà nessuno. Non lo farà l’AfD che sbotta contro l’euro anziché proporre reali soluzioni. Non lo faranno i Verdi che preferiscono andare al governo anziché dimostrarsi responsabili. Non lo farà l’FDP che impiega i propri iscritti nei Ministeri. Non lo farà Die Linke, che vuole soltanto più Stato. E non lo faranno certo SPD e CDU per le quali la sorveglianza sui cittadini non è mai sufficiente».
In poche parole, se dovessimo ricostruire l’identità pirata in positivo, la Piratenpartei sarebbe un partito pro-euro, tendenzialmente antistatalista, con una decisa impronta ambientalista e una forte attenzione per i diritti civili e la lotta alla corruzione. Ad oggi, tuttavia, manca ancora una definizione positiva del “piratismo”. Sappiamo che cosa i pirati non vogliono, ma sono pochi i punti programmatici che ci consentono di definire che cosa realmente vogliano.
Consci di questa tara, molti esponenti del partito hanno preferito abbandonare la nave e approdare altrove, presso l’Alternative für Deutschland ad esempio, che, proprio come i pirati, presenta molti aspetti di rottura rispetto ai partiti tradizionali. L’ultimo degli esuli è Christian Jacken, una delle figure di primo piano dei corsari tedeschi, che ha ufficializzato il proprio passaggio proprio nel corso del congresso federale. Come sottolineato in una recente indagine demoscopica dell’Allensbach Institut, molti dei potenziali elettori di AfD vengono infatti dalle file di Die Linke, l’estrema sinistra o dalla Piratenpartei.