“Raccontaci, Maria, cos’hai visto sulla via?”: questo interrogativo sta al centro della sequenza con cui la liturgia pasquale introduce oggi la proclamazione del vangelo e, perciò, l’annuncio della risurrezione di Cristo. Rievoca, o almeno lascia immaginare, la stupefatta curiosità di Pietro e Giovanni, probabilmente nascosti nel cenacolo, in un angolino dell’antica Gerusalemme, allorché sono raggiunti da quella inattesa notizia, del tutto aperta a tante disparate interpretazioni: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. Ed esprime la spinta dinamica di quel fatto straordinario, capace d’innescare un movimento a catena, una sorta di scossa, che dall’alba di quel “primo giorno della settimana” – come narra il quarto evangelista – mantiene l’esigenza di trasmettersi, per arrivare sino a noi.
Non a caso la voce verbale che l’evangelista usa con maggiore insistenza, nel descrivere il comportamento della donna e dei discepoli, è “correre”. Tutti corrono in quel primo mattino di Pasqua. Corre Maria di Magdala, spinta da un intuito troppo somigliante al sospetto: non s’azzarda – ed è comprensibile, trattandosi di una ragazza che vaga sola soletta nel bel mezzo di un cimitero – a entrare nel sepolcro, stranamente aperto come non dovrebbe essere, ma è comunque sicura che il corpo esanime del suo Maestro non sta più sottoterra. E corrono Pietro e l’altro discepolo, il quale – essendo più giovane – allunga il passo e risulta più veloce. Sono tutti contagiati dal morso di un’invisibile tarantola: la paura che tutto sia finito, che mille avventure siano state vanificate dal fallimento, che l’astio dei nemici si stia accanendo sul morto prima di piombare anche contro di loro. È l’incomprensione delle profezie che fa loro travisare lo scenario e fraintendere gli indizi: la pietra tombale ribaltata, le bende sparse, il sudario afflosciato su stesso. Non hanno la lucidità per chiedersi chi possa mai trafugare un cadavere prendendosi prima la briga di denudarlo completamente. Pietro e l’altro si limitano a vedere la tomba svuotata e, quindi, a credere.
Bene, potremmo concludere. In realtà, non possiamo sbrigativamente liquidare la difficile questione della fede nel Risorto. Quei discepoli non credono che il loro rabbi sia ormai resuscitato. Danno semmai credito a ciò che aveva raccontato loro la donna impaurita. Per questo l’evangelista annota che essi “non avevano ancora compreso la Scrittura”. Il loro credere si riduce a un prestar fede alla giovane amica, motivato dal vuoto e dall’assenza. Essi non hanno visto più nessuno nella tomba. Per questo credono a Maria. Perciò non possono ancora credere davvero. Per credere sul serio, una volta sopraggiunta “la sera di quello stesso giorno”, dovranno vedere il Risorto entrare nella stanza in cui sono rinchiusi per la paura. Del resto, pure la donna di Magdala – rimasta a piangere presso il sepolcro –, per credere finalmente, dovrà vedere Gesù stare “lì, in piedi” e sentirsi chiamare per nome da lui. Come dovranno vederlo e riconoscerlo, secondo il racconto dell’evangelista Luca, i due discepoli di Emmaus, seduti alla sua stessa tavola per cenare, dopo essere stati da lui accompagnati – anche loro – “lungo la via”. Tutti loro dovranno, insomma, averne personale esperienza, incontrandolo, andandogli incontro, smarcandosi rispetto a se stessi, riconoscendolo per come egli veramente è.
Forse sta proprio in quest’ultima sottolineatura, che coincide con quella da cui siamo partiti, il segreto di tutta la faccenda: finché si rimane al chiuso di un nascondiglio, dentro qualche sagrestia, in qualche palazzo ben protetto o in qualche posticino al sicuro, ci si rassegna a essere ostaggi del dubbio che tutto sia un’illusione, che tutto sia terminato chissà quanto tempo fa. Bisogna sporgerci al di fuori, per avvistare colui che ha vinto la morte. Bisogna uscire, come qualcuno – che regge ancora il testimone già tenuto in mano da Pietro – non si stanca di ricordarci. Occorre tornare a correre per le vie, anche quelle in salita, e per i vicoli, anche quelli più stretti. Di buon mattino, senza sonnolenza, e quando si fa notte, senza timore.
Una buona corsa in strada potrà giovare a tutti. A chi dice di credere, come banco di prova su cui lealmente verificarsi. E a chi pensa di non credere, come scommessa da accettare con un minimo di coraggio. Soprattutto, potrà aiutare la Chiesa – nella quale il primo cenacolo ancor oggi persiste – a riscoprire la sua vocazione pasquale e a continuare il servizio già affidato agli apostoli: “Alzati e va’, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza”, si sente dire dall’angelo Filippo in At 8,26. “Essa è deserta”, continua il testo degli Atti. Perciò è necessario andarci, diventare presenza “là dove le persone stanno”: stavolta sono parole che traggo da ciò che i giovani hanno scritto in un documento preparatorio del sinodo a loro dedicato da Francesco nell’ottobre 2018. La loro speranza valga come auguri di buona Pasqua per tutti: “Auspichiamo che la Chiesa ci venga incontro nei diversi luoghi in cui è poco o per niente presente. In particolar modo, il luogo in cui speriamo di essere incontrati dalla Chiesa sono le strade, dove si trovano persone di tutti i tipi. La Chiesa dovrebbe provare a sviluppare creativamente nuove strade per andare ad incontrare”.