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In Asia sta nascendo al Qaeda 2.0 e prolifera il jihadismo giovanile (molto tecnologico)

“In Asia assistiamo a un doppio fenomeno che preoccupa: l’arrivo di foreign fighter dell’Isis dopo la sconfitta militare in Siria e Iraq e una ripresa di al Qaeda. Insieme con l’Africa, l’Asia rischia di diventare un’incubatrice del neo-jihadismo”. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica, grande esperto e studioso di jihadismo, coglie nell’attentato di Colombo a Pasqua (rivendicato dall’Isis) numerosi elementi che devono preoccupare l’Occidente.

Le dimensioni e le modalità dell’attentato nella capitale dello Sri Lanka colpiscono particolarmente: almeno 321 morti, 500 feriti, chiese e hotel nel mirino. Che cosa dimostra questa manifestazione di forza?

La situazione è molto seria perché sono stati utilizzati kamikaze multipli che hanno agito simultaneamente e verso obiettivi diversi. Basta vedere il video del kamikaze che entra in una chiesa e appare molto disinvolto e freddo, dando la sensazione di una forte convinzione e premeditazione. È stato un attentato che necessita di un’organizzazione e di una struttura importanti.

Che cosa sappiamo del gruppo terroristico National Thawheed Jamaat citato dalle autorità cingalesi?

È il gruppo che fino all’anno scorso aveva compiuto solo atti vandalici contro obiettivi buddisti ed è abbastanza singolare che in un anno si passi da quel tipo di attività a un’azione così organizzata. Penso che ci sia stato un forte ruolo esterno di qualcuno che ha voluto usare i rapporti che aveva con le forze jihadiste locali.

La rivendicazione dell’Isis, attraverso la propria agenzia Amaq, sembra confermare questa lettura. Inoltre il premier dello Sri Lanka ha detto che tutti gli arrestati sono cingalesi, ma che alcuni attentatori hanno viaggiato all’estero prima di rientrare in patria.

Sembra che due attentatori siano stati in Siria. Dopo la sconfitta militare dell’Isis, gran parte dei foreign fighter dalla Siria e dall’Iraq si sono diretti verso l’Afghanistan e verso l’Asia in generale, oltre che verso l’Africa. Questo rappresenta una minaccia seria perché rischia di innestarsi in un quadro complicato preesistente. Nello stesso tempo, in Asia c’è una ripresa di al Qaeda, un’al Qaeda 2.0 che, oltre alla componente tradizionale, usa la nuova parte comunicativa e tecnologica tipica dell’Isis. A differenza del Califfato che voleva creare uno Stato, al Qaeda sta seguendo il programma di Osama bin Laden del 2004 che prevedeva la proliferazione dei fronti. Nell’aspirazione a un jihad globale, l’attentato nello Sri Lanka è un passo proprio in direzione di questo allargamento dei fronti.

Dunque possiamo definire l’Asia come un vulcano dove il jihadismo nelle sue varie forme rischia di esplodere?

L’Asia è certamente un bacino di incubazione del nuovo jihadismo insieme con l’Africa. In quella zona il jihadismo, che esiste da tempo, sta subendo una vera accelerazione e ora vuole dimostrare che l’Asia è uno dei nuovi luoghi di attacco.

È credibile la voce che si rincorre sui social network filo jihadisti per cui adesso toccherà all’Indonesia?

Sono voci da prendere con le molle, ma nel quadrante asiatico ci sono molti fenomeni preoccupanti. A Colombo si notano la disinvoltura dei kamikaze (alcuni dei quali nei video alzano il dito, segno distintivo dell’Isis), la quantità di obiettivi, ben 87 detonatori trovati. La scelta di colpire chiese e hotel spiega che ridurre il tutto a una vicenda religiosa, come fanno le autorità locali, è una posizione debole perché gli hotel sono pieni di occidentali e si voleva toccare un luogo di aggregazione occidentale.

Gli Stati asiatici più a rischio sono capaci di reagire, di fronteggiare questo fenomeno?

Hanno già avuto a che fare con questo problema e hanno mediamente buone capacità, spesso supportati dall’esperienza degli Stati Uniti e della Nato, ma finora hanno avuto solo un approccio repressivo. Invece anche in Asia c’è un fenomeno crescente e preoccupante di jihadismo giovanile molto precoce, aumentato dal grande uso della tecnologia proprio perché in Asia si producono molti apparati tecnologici.

È credibile l’ipotesi di una reazione alla strage di Christchurch, in Nuova Zelanda, commessa lo scorso marzo da un australiano islamofobo di estrema destra che uccise una cinquantina di musulmani?

Le autorità cingalesi avranno degli elementi per sostenerlo, da analista dico che c’è una proliferazione che va preso sul serio. Il fronte Afghanistan-Pakistan si sta complicando di nuovo perché al Qaeda è viva, ha rapporti con i talebani ed è presente l’Isis; ci sono movimenti dall’Afghanistan verso le ex repubbliche sovietiche, con attenzione da prestare in particolare all’Uzbekistan dove c’è Imu, l’Islamic movement of Uzbekistan, legato ad al Qaeda, del quale troviamo traccia in molti avvenimenti in Occidente negli ultimi mesi. Quella è un’area sensibile anche per i foreign fighter: per esempio dall’Uzbekistan ne partirono più di 2500, dal Tagikistan 1500, dal Kirghizistan 800.

In Occidente la prevenzione sta frenando l’attività terroristica, è possibile che anche per questo i jihadisti vogliano dimostrare in altre aree del mondo che sono lontani dall’essere sconfitti oppure non c’è questo tipo di collegamento?

In Asia c’è un clima favorevole per il jihadismo dovuto al disagio economico e sociale, oltre a gruppi preesistenti che hanno carattere di ribellismo e di indipendentismo e che negli ultimi anni si sono trasformati in fenomeno jihadista, come nelle Filippine e in Indonesia. Sono vari i fattori di disgregazione e gli spazi vuoti lasciati dal potere che favoriscono questi fenomeni. Oltre all’area cosiddetta Afpak, il jihadismo asiatico si sta molto potenziando nel Subcontinente indiano: Filippine, Malesia, Indonesia, Sri Lanka, Bangladesh, India.

Come può l’Occidente aiutare quegli Stati?

Esportando un modello di contrasto fatto anche di prevenzione e abbattendo certe frontiere perché occorre collaborare anche con la Russia e la Cina. Quest’ultima subisce una forte proliferazione jihadista a causa della minoranza uigura che crea tanti problemi. Le autorità locali cinesi hanno attuato una repressione violentissima, perfino tracciando con i radar le auto in quell’area di confine, ma il pericolo si è solo ridotto perché gli elementi uiguri più pericolosi si sono spostati nei Paesi vicini.

Il jihadismo non attecchisce solo nelle fasce più emarginate. Due kamikaze dell’hotel Cinnamon erano fratelli di religione musulmana e figli di un ricco commerciante di spezie di Colombo.

Il fenomeno è noto: anche in Bangladesh erano figli di papà gli attentatori che nel luglio 2016 attaccarono un ristorante nel centro di Dacca pieno di occidentali dove morirono anche 9 italiani. È già successo che il jihadismo asiatico faccia proseliti tra familiari e tra persone agiate.



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