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Letta faccia ciò che non è riuscito a Monti

Per trovare una soluzione allo stallo politico determinatosi in virtù del risultato elettorale del 25 febbraio scorso, editorialisti, costituzionalisti e uomini di partito si sono esibiti nelle più fantasiose acrobazie concettuali.

Chi parlava di “governo del Presidente”, chi di “governo di scopo”, chi addirittura di “governo di minoranza”, altri ipotizzavano improbabili “fughe” dall’aula del Senato, in virtù di intese politicamente inconfessabili, ufficialmente “non gradite e non richieste”, mutuando un’espressione usata in tempi lontani dall’allora segretario della Dc Fanfani, con riferimento ai voti di fiducia, imbarazzanti ma utili, in arrivo dai deputati missini in soccorso del neo costituito governo di Adone Zoli. Tempi e nomi che sembrano così lontani, dimenticati! Ma la necessità di giovarsi di alchimie parlamentari e dialettiche nella formazione delle maggioranze è tuttora ricorrente.

Responsabilità delle disfunzioni della legge elettorale e dell’incapacità di introdurre, in sede di revisione costituzionale, quei correttivi che rendano certa, per quanto possibile, la vittoria di uno schieramento e la nuova maggioranza parlamentare. Grazie alla saggezza e determinazione del Capo dello Stato si è pervenuti infine a quella che già da tempo non poteva non apparire come l’unica soluzione possibile, quella consociativa delle “larghe intese”, rimedio obbligato in una democrazia parlamentare, quando le urne non abbiano assegnato ad alcuna coalizione la maggioranza assoluta e si ritenga inopportuno e dannoso, in virtù di una particolare congiuntura, il ritorno immediato al voto.

A queste ragioni si aggiungeva, nella nostra peculiare condizione, il reiterato rifiuto di Grillo di partecipare a una maggioranza di governo a guida PD. Alla fine, dopo anatemi e resistenze laceranti, è stata finalmente accolta l’opzione della Grande Coalizione, a sostegno di un esecutivo formato da esponenti sereni e moderati di entrambi i partiti guida delle due maggiori coalizioni – e naturalmente di Scelta Civica – e, senza più infingimenti, alibi e ipocrisie si è attribuita a questo governo una valenza esplicitamente “politica”, accettando finalmente l’idea che “consociativismo” non sia una parolaccia, ma una possibilità della democrazia – come già avvenuto in anni recenti in altri paesi europei, tra cui la Germania – in presenza di determinate condizioni. Soprattutto in una fase di emergenza economica e sociale, partiti o coalizioni in tempi normali concorrenti e alternativi, ma poggianti su solidi fondamenti democratici, possono convergere su un programma comune, in attesa che maturino i tempi per il ritorno all’alternanza.

E governo politico dovrà rivelarsi ora la squadra di Enrico Letta, per affrontare i nodi più urgenti dell’economia, della finanza pubblica, del rinnovamento istituzionale. Avvalendosi di un consenso parlamentare così esteso che può rappresentare una garanzia per i partner europei e per i mercati, se non prevarranno i ricatti reciproci, i veti incrociati, l’incapacità di mediare tra visioni e priorità certamente diverse. La congiuntura rivela spiragli di ripresa a breve scadenza e possibili margini di allentamento dei vincoli di bilancio, attraverso una rinegoziazione già avviata in sede europea.

L’esigenza di abbattimento di una pressione fiscale giunta ai limiti della sostenibilità appare ormai condivisa dalla quasi totalità delle forze politiche, anche se forse su questo fronte, più che discutere se cancellare tout court una singola imposta o lasciarla in vigore – come sta accadendo con quella più detestata e percepita come iniqua, cioè l’Imu sulla prima casa – occorrerebbe una generale revisione della giungla di balzelli che si sono cumulati nel tempo attraverso successive normative finanziarie, spesso non armonizzati tra loro e contraddittori rispetto alle esigenze di tenuta e di crescita economica e occupazionale (pensiamo all’Irap che grava non solo sui redditi netti, ma anche sui costi d’impresa, come quello del lavoro).

Il sistema richiederebbe una ricostruzione complessiva armonica, con un riordino del complesso groviglio di norme su agevolazioni e detrazioni che risponda alle esigenze di incentivare l’occupazione – e, in particolare, la sua stabilizzazione – e di garantire certezza alle imprese. In questo quadro, l’imposizione legata ai cespiti patrimoniali – come l’Imu – dovrebbe tenere comunque conto del reddito effettivo percepito dal contribuente, in una realtà sociale come la nostra, in cui la proprietà della prima casa è molto diffusa e in cui vengono censiti quasi tre milioni di disoccupati (si stima un incremento al 12,2% nel 2014) e oltre otto milioni di persone in condizioni di povertà (e tre milioni e mezzo in povertà assoluta) e spesso queste persone sono tuttora proprietarie di prima casa. Quindi non è tanto importante l’abolizione dell’Imu, ma la previsione di ampie e ragionevoli fasce di esenzione legate al reddito, come anche al valore dell’immobile.

Al riordino del sistema tributario deve corrispondere l’intensificazione dell’impegno sul fronte della spesa, tenendo conto che alle notizie positive sul contenimento del deficit – chiusura della procedura di infrazione in sede europea – non fanno riscontro purtroppo auspici altrettanto favorevoli rispetto al rapporto debito/Pil salito al 131%. Il nuovo governo intende spingere sulla crescita e decelerare un po’ sul rigore, per invertire il ciclo recessivo e rilanciare prospettive occupazionali. Ciò significa trovare risorse per fare fronte al mancato gettito derivante dalle auspicate riduzioni di imposte – Imu, Irap, possibili rinunce a previsti incrementi di Iva e Tares, cuneo fiscale, credito di imposta per nuovi assunti, come previsto dal documento dei “saggi”-, a interventi urgenti come il finanziamento della Cassa integrazione in deroga e la salvaguardia degli ulteriori esodati ancora scoperti (altri 140.000 tra presenti e futuri a breve).

La Grande Coalizione dovrà dimostrare il coraggio di affrontare il nodo di una spesa pubblica con tendenze a una crescita abnorme (negli ultimi anni 276 miliardi) e proseguire con i tagli o accorpamenti di enti locali o territoriali di governo e con i processi di privatizzazione e dismissione di beni e partecipazioni di proprietà pubblica. Alle maggiori forze politiche è accordata un’occasione unica: cogliere in questo governo, costituito in larga misura da figure di cultura e sensibilità centrista e non inclini allo scontro barricadiero, la possibilità di una fase di raffreddamento delle tensioni e contrapposizioni di questi ultimi anni, per realizzare insieme ciò che non è stato possibile nemmeno alla squadra tecnica di Mario Monti, certamente più debole, non potendosi ritenere rappresentativa di un consenso popolare e dovendosi reggere sulla tregua armata tra i due maggiori partiti, pronti a darsi di nuovo battaglia nelle imminenti elezioni.

Ora abbiamo invece un governo politico (nonostante la presenza di tanti ministri ancora “tecnici”), rappresentativo del 70% degli elettori che hanno preso parte al voto. La comune responsabilità assunta può mitigare – e distribuire equamente – gli stessi rischi elettorali legati a scelte non da tutti apprezzabili nell’immediato. Ed è anche un’occasione unica per le riforme istituzionali, che per loro natura richiedono un vasto consenso e soprattutto la convergenza delle maggiori forze politiche.



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