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Pregi e limiti dell’Abenomics, ma l’Italia non è il Giappone

Il primo ministro giapponese Shinzō Abe è stato in Europa per incontri con l’Unione europea sul trattato di libero scambio in vigore da alcuni mesi e per iniziative atte a difendere il multilateralismo in un momento in cui Usa e Cina sembrano puntare su una rinascita del bilateralismo commerciale.

In questo contesto ha fatto tappa a Roma e si è incontrato con leader della maggioranza di governo che vedono con certo fascino l’esperienza nipponica in atto dal 2013 – chiamata Abenomics – che coniuga disavanzi del bilancio pubblico, aumento del già forte debito pubblico per mantenere crescita nonostante il forte invecchiamento della popolazione. È stato già rilevato che, nonostante l’Abenomics, negli ultimi vent’anni il tasso di crescita del Giappone (0,7% l’anno) è stato poco più della metà di quello dell’eurozona (1,3%) e che l’altissimo debito pubblico è finanziato essenzialmente all’interno, principalmente dalle Poste e da banche, mentre un terzo di quello italiano è in mano ad investitori esteri, i quali, nonostante gli elevati rendimenti (lo spread) nell’ultimo anno hanno cominciato a sbarazzarsene, preoccupati dall’eventualità di una crisi.

Vale la pena, però, esaminare il tema un po’ più a fondo. Ho soggiornato, in passato, spesso in Giappone e ne sbiascicavo anche qualche parola della lingua. L’Abenomics si compone fondamentalmente di tre direttrici: politica monetaria, politica di bilancio e strategie di crescita. Nello specifico, deprezzamento dello yen al fine di incentivare l’export giapponese continuamente minacciato da quello cinese (misura che all’Italia non è dato fare perché parte di un’unione monetaria), tasso d’interesse fissato in negativo per disincentivare il risparmio (misura che nel nostro caso dipende dalla Banca centrale europea), politica monetaria espansiva per raggiungere e mantenere il tasso d’inflazione del 2% l’anno, aumento di 1,5% della spesa pubblica raggiungendo l’11,5% del Pil.

L’Abenomics ha avuto benefici indiscutibili nel breve termine. Nel primo quadrimestre del 2013 (anno, si ricorda, in cui è stata varata), il tasso di crescita annuale del Giappone si è attestato attorno al 3,5% e gli indici di borsa hanno segnato un fortissimo aumento; l’attivo commerciale è cresciuto di trecento miliardi di yen grazie all’aumento del 12% delle esportazioni. Nonostante ciò, dopo questo primo balzo, l’indice Nikkei ha sperimentato un brusco ribasso.

Inoltre, i salari reali hanno subìto una riduzione in termini reali a ragione dell’aumento dell’inflazione in coppia ad un incremento aumento meno che proporzionale dei salari nominali. Il governo risponde che attraverso una maggiore competitività sarà in grado di contrastare questa tendenza. Tokyo è convinta che nel più lungo periodo, il Giappone tornerà sulla scena mondiale in maniera competitiva. Per l’anno in corso le stime di crescita danno un aumento del Pil dell’1% – un successo rispetto al passato.

Occorre tenere presente che molti aspetti dell’economia e della società giapponese sembrano adattarsi molto poco alla società italiana: la disciplina, la sobrietà di vita e di consumi. Il Giappone ha, poi, da decenni una politica di “invecchiamento attivo”: oggi si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio e successivamente si è impegnati (gratis) in attività di pubblica utilità. Che risultato avrebbe alle urne la forza politica che lo proponesse agli italiani?


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