Non sorprende più il continuo scontro comunicativo tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, i due leader di Movimento 5 Stelle e Lega sono ormai immersi in una campagna elettorale permanente che li vede contendersi più spazio mediatico possibile. Ed è in questa chiave che Massimiliano Panarari, esperto di comunicazione politica e autore di “Uno non vale uno – Democrazia diretta e altri miti d’oggi” (Marsilio), ha letto l’ultimo scontro sulle dimissioni di Armando Siri, chieste nella serata di ieri da Giuseppe Conte, a cui le due forze di governo hanno risposto con toni pacati, sebbene fermi sulle proprie posizioni (dimissioni per Di Maio, fiducia in Siri Salvini).
La vicenda Siri ha aperto un altro fronte dello scontro tra le forze di governo. Ma qualcuno dei contendenti, Di Maio o Salvini, ha vinto la battaglia?
Io credo che il punto sia che ambedue i contendenti tendono a cercare di pareggiare la situazione perché sono proiettati in questa campagna elettorale permanente che vede una escalation continua. Difficile, quindi, individuare un vincitore ora. Il vincitore sarà chi prenderà più voti alle elezioni del 26 maggio. Ad essere invece importante è la tempistica di questa decisione.
Perché?
La decisione è arrivata quando Salvini era a Budapest e il suo protagonismo politico poteva contare su una grancassa mediatica e le ripercussioni comunicative che ne derivavano. Il Movimento 5 Stelle sostiene da tempo la posizione delle dimissioni di Siri, l’accelerazione ha dato però l’impressione che si sia trattato di una strategia mediatica volta ad oscurare o quantomeno a pareggiare il protagonismo salviniano.
Una competizione per gli spazi comunicativi, insomma…
Potremmo dire che in qualche modo, dal momento che ambedue questi partiti populisti fanno la campagna elettorale permanente, siamo in una situazione di stallo comunicativo che ogni giorno si scontra con nuove trovate in una competition dal punto di vista comunicazionale che è davvero inusitato e non si è mai visto in Italia.
Il presidente del Consiglio Conte, però, ha fatto un passo avanti e ha messo il punto a una situazione di stallo. La sua immagine ne esce rafforzata?
Ci sono tre elementi che si possono segnalare: uno è che il premier Conte, come dalle dichiarazioni delle origini, è il perno del governo, il notaio, quindi nel momento di conflitto è chiamato a dirimere in linea ipotetica le situazioni di conflittualità così come è successo in questo caso. Il secondo punto è che, dal momento che la sua posizione è chiaramente più debole, perché non è un leader politico e i suoi due vicepremier sono costantemente presenti all’interno dei flussi comunicativi, per non scomparire totalmente questa era l’occasione per lanciare un segnale e rendersi presente.
Il terzo punto?
Il terzo punto ha a che fare con una sfumatura anche personale e professionale della sua comunicazione. Se da una parte c’è un risvolto politico della comunicazione, c’è anche un atteggiamento che potremmo definire in punta di diritto. Nel corso di queste settimane lui si è mosso da una parte come mediatore, pur risentendo fortemente delle indicazioni di Luigi Di Maio, ma dall’altra nella gestione della questione dava l’impressione di voler applicare il corpus e le consuetudini di una tradizione di diritto. Lui, infatti, come ha più volte ribadito è un operatore del diritto.
Come sempre, in questo scontro permanente, a soccombere su tutti i livelli è l’opposizione…
Questo è il senso della campagna elettorale permanente. Come già avviene nella formula politica della loro alleanza che si potrebbe definire di esclusione (si sono messi insieme per escludere gli altri e perché non c’erano formule alternative), così avviene anche in ambito comunicativo. La convergenza di interessi è la stessa, ossia una competition comunicativa tra i due alleati e l’idea di saturare – come avviene sistematicamente e con grande efficacia – con le loro conflittualità, le loro scaramucce, la loro guerra simulata il campo mediatico e quindi di impedire che nell’agenda setting e nei flussi comunicativi si inserisca l’opposizione.