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Spitzenkandidaten: una ricetta ben cucinata ma ancora poco saporita

Una democrazia non esiste senza lotta politica, senza un potere da contendersi. Dovessimo giudicare lo stato di salute della democrazia europea dal dibattito che si è tenuto a Maastricht a fine aprile, poi a Firenze ad inizio maggio, e ieri a Bruxelles fra gli Spitzenkandidaten (i candidati designati dai gruppi politici alla Presidenza della Commissione Europea) dovremmo essere moderatamente soddisfatti. Pur condividendo tutti l’esigenza di cambiare in profondità le istituzioni e le politiche europee, nella diffusa consapevolezza che serve un maggior grado di integrazione europea (escluso Zahradil), i candidati si sono divisi (anche se con toni pacati, ai quali non siamo più abituati in questo paese) su parecchi aspetti sostanziali. Insomma, una lotta politica (apparentemente) vera. Ma che lascia trasparire più di una perplessità.

Il più radicale, come anticipato, è stato Jan Zahradil (Alliance of Conservatives and Reformists in Europe): ceco, euroscettico ed allergico alle tematiche sui cambiamenti climatici, ha messo in evidenza come intenda lottare per un “ritorno indietro” dell’integrazione europea. Più governi (difficile però immaginare ‘più’ di oggi…) e meno scelte collettive. Salvo poi auspicare la cooperazione fra gli stessi governi per raggiungere obiettivi comuni che anche lui è costretto a riconoscere come tali (ma quando gl’interessi nazionali non coincidono, ossia quasi sempre, che si fa?). In ogni caso, ha svolto il suo compito con diligenza. Considerando che gli altri partiti euroscettici hanno preferito tacere e non presentare alcun candidato-guida alla Presidenza della Commissione, gli va dato atto quantomeno di una buona dose di coraggio.

Altrettanto radicale è stata la posizione di Ska Keller (European Green Party), con l’attenzione quasi ossessiva (naturalmente, se ne comprende il motivo) per la lotta contro l’inquinamento, i cambiamenti climatici, ed a favore della sostenibilità (ambientale, ma anche sociale, tramite investimenti mirati nella green economy) dello sviluppo, dalla quale discendono poi tutte le altre scelte in tema di economia, stato sociale, accordi commerciali, etc.

Anche Nico Cué (Party of the European Left) ci pare abbia fatto il suo mestiere. Belga, sindacalista, ha cercato di difendere un modello di sviluppo fondato su produzioni ad alta intensità di lavoro e sulla preminenza delle politiche sociali (non affidate all’austerità ed alle riforme strutturali, ma orientate alla crescita ed all’inclusione). C’è da chiedersi se possa essere una carta vincente oggi, in un contesto internazionale fortemente dinamico, interdipendente, globalizzato e legato in gran parte agli esiti alla rivoluzione digitale. Ma almeno è stato coerente.

Ed ecco i tre ‘big’, i candidati-guida dei gruppi politici accreditati ancora oggi del maggior numero di seggi nel Parlamento Europeo.

Margrethe Vestager (Alliance of Liberals and Democrats for Europe): danese, attuale Commissario Europeo alla Concorrenza, ha assunto scelte controverse su recenti tentativi di fusione franco-tedeschi nel settore dei vettori ad alta velocità, mostrando una visione del mercato un po’ troppo schiacciata sulla dimensione europea-continentale, piuttosto che su quella globale, come sicuramente è in alcuni settori. A differenza di Guy Verhofstadt, che era intervenuto per il gruppo a Firenze (l’ALDE ha indicato un team di persone, non un unico Spitzenkandidat), estremamente combattivo ed a tratti ai limiti del politically correct, che aveva ribadito l’esigenza di far scomparire il voto all’unanimità ovunque sia rimasto nelle scelte collettive europee come prerequisito per il corretto funzionamento di una democrazia sovranazionale, la Verstager ha tenuto un profilo più basso, mostrando a tratti un’anima market-oriented che, se piacerà sicuramente a Macron, pare un po’ meno adeguata a raccogliere più ampi consensi in altri bacini elettorali.

Manfred Weber (European People’s Party): membro di spicco della CSU bavarese, apparso più un ‘equilibrista’ dei grandi compromessi che ‘equilibrato’; dotato del buon senso del buon padre di famiglia, non ha battuto ciglio nemmeno quando, dopo aver sostenuto la necessità della lotta ai cambiamenti climatici, di una politica sociale europea, dell’abbandono dell’austerità, è stato accusato dagli altri concorrenti di aver osteggiato e votato esattamente contro tutti i provvedimenti che nell’ultima legislatura andavano in quella direzione. Ha parlato di solidarietà, di rafforzamento del mercato unico, di una polizia di frontiera unica, di un Piano per l’Africa (non è stato l’unico su questo punto); ma ha anche espresso perplessità su una carbon tax.

Last but not least, Frans Timmermans (Party of European Socialists), probabilmente il vincitore morale complessivo dei tre dibattiti. Chiaro, ottimo comunicatore, già Vice-Presidente della Commissione, ha ribadito la necessità di una riforma in senso sovranazionale della UE, con maggiore attenzione agli investimenti, alle politiche pubbliche, alla politica sociale ed a quella ambientale. Tutto sommato: il più convincente.

Naturalmente questa panoramica non esaurisce il quadro delle riflessioni. Intanto perché anche le assenze contano. Né il Gruppo per la democrazia diretta né l’Europa delle nazioni (i gruppi politici di cui fanno parte i nostri partiti di governo, rispettivamente M5S e Lega) hanno indicato uno Spitzenkandidat. Il che getta una luce inquietante sullo spregio (mascherato dal nome, nel primo caso, fieramente esplicito nel secondo) che i due gruppi hanno per il ruolo dei cittadini nella costruzione europea! E soprattutto sulla progressiva marginalizzazione alla quale il nostro paese sta andando incontro (ormai data per irreversibile, nel breve-medio periodo, nei palazzi di Bruxelles) in Europa.

E poi: siamo sicuri che il prossimo Presidente della Commissione sarà davvero scelto fra gli Spitzenkandidaten? E, se lo sarà, la scelta avverrà sulla base del raggruppamento che ottiene la maggioranza alle elezioni europee? Numerosi elementi fanno sospettare che, stavolta potrebbe non andare in questo modo (nel 2014 le elezioni avevano effettivamente portato alla guida della Commissione il candidato del partito popolare europeo, ossia quello che aveva raccolto la maggioranza relativa dei consensi elettorali: Jean-Claude Juncker).

Nonostante il Parlamento si sia espresso in maniera netta sul fatto che non darà mai il via libera ad alcun candidato che non sia stato indicato fra gli Spitzenkandidaten, le perplessità rimangono.

Prima di tutto perché non è politicamente accettabile, nell’attuale situazione politica di compromessi, che la Presidenza vada nuovamente ad un popolare (Weber, che oltretutto solleva parecchie perplessità anche all’interno del suo gruppo, destinato a raccogliere nuovamente la maggioranza relativa dei voti). Semmai potrebbe essere la coalizione di maggioranza (popolari, democratici, liberali?) ad esprimere un candidato; ma in questo caso potrebbe non essere scelto fra quelli guida (si fa il nome di Barnier). Certo, sarebbe un duro colpo alla democrazia diretta europea, in un momento in cui le istituzioni di Bruxelles vengono percepite come scarsamente democratiche. Inoltre, se il metodo dei candidati-guida pone gran parte delle scelte della prossima legislatura europea nelle mani dei cittadini europei, i governi nazionali non si faranno facilmente escludere. Non a caso, negli ultimi anni, si è rafforzato il metodo intergovernativo di scelta collettiva a livello europeo, piuttosto che quello comunitario. Il che significa che, in ultima istanza, sono sempre i governi a gestire la grande barca della UE, prefigurando un modello sostanzialmente confederale.

Insomma, se il metodo degli Spitzenkandidaten sembra funzionare egregiamente in televisione, non è detto che sia sufficiente a fornire alle istituzioni della prossima legislatura quella legittimità democratica necessaria per trasformare la UE in una genuina democrazia sovranazionale, se non ci si muoverà finalmente verso la formazione di liste transnazionali. Ma, soprattutto, non è detto che venga rispettato.


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