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Bolton vorrebbe il regime change in Iran, Trump no

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Arab News è un giornale saudita di proprietà di Turki Bin Salman, membro della casa regnante saudita, uno dei fratelli minori del principe ereditario Mohammed bin Salman, ed è per questo che quando se ne parla si semplifica: è un media di stato di Riad. Ieri il giornale apriva con un editoriale di redazione in cui si chiedeva agli Stati Uniti di non lasciare impunito l’Iran, e di colpirlo con un “attacco chirurgico”. In questi giorni in cui gli americani hanno alzato in modo guerresco il livello del confronto con la Repubblica islamica sciita nemica dei regni sunniti del Golfo, sono molti i commenti a proposito della strategia americana collegata a certe posizioni.

GLI USA, GLI ALLEATI E L’IRAN

Secondo molti, questa politica aggressiva statunitense è spinta da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Israele, che odiano l’Iran perché lo vedono come una potenza che cerca di costruirsi una struttura di dominio della regione in competizione con i piani israeliani e arabi. E infatti, in una delle ricostruzioni dietro al report di intelligence arrivato a Washington all’inizio del mese – quello riguardante informazioni sulla possibilità che gli iraniani stessero per compiere qualche genere di attacco (non specificato) contro americani o alleati in Medio Oriente – Axios scriveva che erano stati anche i servizi segreti israeliani a raccogliere certe informazioni per poi girare l’imbeccata agli Usa.

Nella visione imperiale degli Stati Uniti non è tollerato un sovranismo come quello iraniano, non si accetta l’indipendenza con cui un qualche attore intende giocare interessi egemonici in un’area, concetto che si sovrappone alle priorità simmetriche di quel gruppo di alleati regionali con cui l’amministrazione Trump ha ristretto i rapporti come mai prima. Un punto che può essere utilizzato come lente per decifrare la situazione, l’ingaggio totale contro l’Iran partito dal ritiro trumpiano dell’accordo sul nucleare raggiunto nel 2015.

LA POSIZIONE DI TRUMP E LA LINEA DI BOLTON

Con un distinguo: se nel piano il presidente Donald Trump vorrebbe usare la massima pressione su Teheran per raggiungere una nuova intesa secondo lui più vincolante e conveniente per gli americani (più che altro in grado di obliterare quella precedente, legacy globale della detestata amministrazione Obama), c’è un altro settore dell’amministrazione – quello per esempio dei falchi come il Consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton – che vorrebbe pressare l’Iran per stressare la situazione fino al punto di portarla verso un qualche genere di regime change contrattato con gli alleati locali. Retroscena di New York Times e Wall Street Journal sono da esempio: da giorni Bolton, accusato di aver esagerato la situazione con l’Iran per sostenere la sua linea, esprime moderata “frustrazione” nei confronti di Trump, perché vede il presidente non sufficientemente convinto nello spingere l’ingaggio con l’Iran – ieri ha detto che “spera di non fare una guerra” – e secondo alcune fonti dei media americani questo sta mettendo il consigliere nei guai, perché Trump potrebbe scaricarlo.

“L’Arabia Saudita ha i suoi militari e non dovrebbe prendere in prestito i nostri per combattere le guerre che vuole combattere”, scrive su Twitter John Allen Gay, studioso di Iran, già critico dell’uscita dall’accordo del 2015. La frase ricorda quella in cui Bob Gates, ai tempi in cui era capo del Pentagono per la prima amministrazione Obama, disse al ministro degli Esteri francesi che “i sauditi vorrebbero combattere l’Iran… fino all’ultimo americano”. Per una presidenza che vede l’impegno militare americano nel mondo come un sovrappeso costoso, e che chiede agli alleati di farsi carico delle proprie responsabilità sull’onda dell’America First, certe dinamiche boltoniane potrebbero essere difficili da accettare. E infatti, il segretario di Stato, Mike Pompeo, nei giorni scorsi ha chiamato il governo dell’Oman per parlare della situazione: non è chiaro se sia stato riattivato il secret channel omanita usato dall’amministrazione Obama del 2013, ma Muscate ha da sempre un ruolo di mediazione (come la Svizzera, già contatta per aprire un altro canale con Teheran).

INTANTO, IN MEDIO ORIENTE 

Anche perché la situazione nel Golfo è delicatissima: ci sono continui warning che hanno portato all’evacuazione di parte del personale americano dall’Iraq (perché l’amministrazione teme possa essere oggetto di un attentato organizzato dall’Iran tramite alcune delle sue milizie proxy), ci sono manovre militari (continue) di routine che stanno ricevendo molto spin politico come ammassamento armato contro gli ayatollah, ci sono stati due circostanze critiche come il “sabotaggio” nel porto emiratino Fujairah (12 maggio) e un attacco tramite droni kamikaze dei ribelli Houthi contro due pipeline saudite (14 maggio).

Gli americani sarebbero anche in possesso di immagini satellitari in cui si vede un peschereccio iraniano trasportare in Iraq missili balistici, armi devastanti che Teheran avrebbe messo in mano a uno dei gruppi controllati locali. A questo si legherebbe il dispiegamento americano di nuove unità nel Golfo (anticipando di due/tre settimane spostamenti programmati) e la visita blitz del segretario Pompeo a Baghdad – dove c’è un governo alleato americano, ma sotto influenza iraniana. Ora il Pentagono, sotto varie richieste (anche dei congressisti) sta pensando a come declassificarle per usare come prove dimostrative a sostegno della motivazione della crisi, evitando però di compromettere attività di intelligence.

LE MINACCE, I DUBBI, LE PRECISAZIONI

Sul valore delle minacce iraniane alla sicurezza dei contingenti militari occidentali in Iraq e delle strutture petrolifere (considerate i potenziali target principali di un’eventuale azione) ci sono stati anche dubbi. Un alto ufficiale inglese che comanda l’operazione che dall’Iraq sta combattendo lo Stato islamico ha detto che non ci sono segnali particolari sull’aumento della minaccia (che significa che certe milizie locali ideologizzate e finanziate dall’Iran sono una minaccia, ma adesso non più di prima), mentre il Pentagono l’ha rimproverato e il dipartimento di Stato americano dice che il rischio “è reale”.

Secondo alcune informazioni raccolte dall’inglese Sky News tra i corridoi del ministero della difesa inglese, quell’ufficiale ha cercato di sminuire la situazione tenendo “un tono più cauto” perché non sapeva quanto fosse autorizzato a parlare di report di intelligence sull’aumento della minaccia che invece avrebbe avuto modo di vedere in precedenza. Ora anche Londra ha un piano di evacuazione del personale sul suolo iracheno, pronto a essere attivato, legato a “chiare indicazioni” di aumento della minaccia. (Va da sé che dev’essere successo qualcosa tra gli uffici del governo e quelli dei militari, ma siamo tra le speculazioni ndr).

LE ACCUSE CONTRO L’IRAN

Ieri, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, uno dei falchi della politica assertiva contro l’Iran, e il viceministro della Difesa, Khalid bin Salman, altro fratello dell’erede al trono (che è ministro della Difesa), hanno accusato gli iraniani di essere dietro all’attacco drone subito da due oleodotti nella provincia costiera occidentale saudita. Secondo il figlio più piccolo di Re Salman, si tratta di un “attacco terrorista, ordinato dall’Iran” attraverso i ribelli Houthi che sono un gruppo indipendentista che da quattro anni ha messo a ferro e fuoco lo Yemen rovesciandone il governo. I sauditi, insieme agli emiratini, hanno lanciato da anni un’operazione militare per fermare i ribelli yemeniti, una campagna – con pochi successi e molti morti civili – che è considerata uno dei prolungamenti nel confronto tra il regno e il regime iraniano, dato che gli Houthi sono in modo ricollegabili alla galassia di milizie filo-iraniane (in realtà questo collegamento è molto più sfumato che in casi come, per esempio, gli Hezbollah libanesi o gruppi simili iracheni).

Secondo gli americani, gli iraniani c’entrano anche con il sabotaggio delle quattro navi nel porto petrolifero emiratino di Fujairah, avvenuto con tecniche “sofisticate”, tipo mine marine guidate. Prove circostanziali: una nave militare iraniane specializzata in operazioni sottomarine, la “Tandis 21” era nell’area del misfatto proprio in quelle ore, poi è rientrata in un porto dall’altra parte dello Stretto di Hormuz controllato dalle IRGC (i Guardiani, il corpo militare teocratico che gli Stati Uniti hanno da poco designato come organizzazione terroristica). Per gli americani, l’Iran avrebbe “incoraggiato” alcuni dei gruppi proxy all’azione.


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