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Un Katyusha cade vicino l’ambasciata Usa a Baghdad, ma Trump non cambia idea

trump veto

Nella serata di ieri, un razzo Katyusha ha colpito un edificio vuoto al centro di Baghdad. Il missile è atterrato in piena Green Zone, l’area protetta in cui sono raccolti gli uffici del governo iracheno e le rappresentanze internazionali. Ha centrato un’ex azienda a meno di un chilometro dal fortino dell’ambasciata americana senza però produrre danni sostanziali a cose o persone. Nei mesi scorsi è già successo qualcosa di simile, anche quella volta senza conseguenze, ma quello che è avvenuto ieri si inserisce in un momento delicatissimo per il Medio Oriente con un confronto tra Stati Uniti e Iran che passa dall’Iraq e che rischia di diventare una guerra.

CHI HA LANCIATO IL KATYUSHA?

Il razzo è stato sparato da un sistema portatile ritrovato per strada nella parte est fuori la Green Zone, un’area che – secondo i funzionari iracheni che hanno parlato con gli inviati dei media sul posto – sarebbe controllata da alcuni partiti/milizia sciiti come la Kataib Hezbollah. Ossia, da gruppi politici armati collegati con l’Iran. Si tratta di realtà socio-politiche che negli ultimi tre anni – quelli in cui hanno partecipato, finanziati e infiammati da Teheran, alla guerra contro l’Is sullo stesso lato americano – hanno aumentato peso e influenza all’interno dell’Iraq e adesso sono tornate a essere una preoccupazione per gli Stati Uniti.

I GRUPPI SCIITI

Si scrive “tornate” perché molte di quelle milizie erano state protagoniste di azioni contro gli americani una dozzina e più di anni fa, quando ai tempi dell’occupazione d’Iraq si rendevano protagonisti di attacchi jihadisti contro i soldati statunitensi, ed erano considerati dai pianificatori del Pentagono peggiori dei qaedisti che più recentemente hanno formato lo Stato islamico. Ora sono chiamati “proxy iraniani” e preoccupano Washington, dove due settimane fa è arrivato un rapporto di intelligence che diceva chiaramente che Teheran aveva dato ordine a questi gruppi collegati di attaccare gli americani e i loro alleati nel Golfo come rappresaglia contro diverse mosse con cui la diplomazia armata statunitense aveva stretto ulteriormente la pressione sulla Repubblica islamica (il piano per tagliare a zero l’export petrolifero; le nuove, asfissianti disposizioni sanzionatorie in programma; la designazione delle Guardie della rivoluzione come gruppo terroristico; e in generale lo schiacciamento sulle posizioni guerresche contro l’Iran degli alleati regionali Usa come Arabia Saudita e Israele).

EPISODI DELICATI…

Siamo già al terzo episodio potenzialmente riconducibile all’Iran e ai suoi proxy avvenuto nel quadrante durante l’ultima settimana, ossia dopo quel report. Prima quattro navi sono state sabotate davanti al porto di Fujairah, negli Emirati Arabi, proprio nel mezzo della strozzatura strategica del Golfo Persico, lo Stretto di Hormuz, su cui Teheran minaccia rappresaglie perché cruciale per i traffici petroliferi globali su cui ha parziale controllo; poi sette droni kamikaze dei ribelli yemeniti Houthi, che mantengono con l’Iran un collegamento non del tutto chiaro, hanno colpito due pipeline del petrolio saudita; almeno un missile balistico di tipo Scud lanciato dagli Houthi è stato intercettato sopra ai cieli sauditi dal sistema antiaereo del regno (che è Made in USA); infine il razzo sparato verso l’ambasciata americana di Baghdad, che il governo statunitense aveva dato ordine di evacuare del personale non necessario qualche giorno fa, in una misura decisa che aveva prodotto l’allineamento di diverse altre cancellerie (per esempio ordini simili erano arrivati da Londra e Bahrein).

… E RISCHI COLLEGATI

Insomma, di occasioni per fare la guerra, se fosse realmente predominante questa linea all’interno dell’amministrazione statunitense, ce ne potrebbero essere state, anche perché gli Stati Uniti hanno già detto di ritenere l’Iran responsabile di eventuali attacchi condotti contro gli interessi americani da questi gruppi collegati (che si trovano non solo in Iraq, ma anche in Siria e Libano, mentre gli Houthi in Yemen sono, per molti aspetti, storia a sé). Ma le posizioni guerresche sono solo una parte dell’articolato mondo del governo Trump, dove c’è una traiettoria politica aggressiva molto calda impersonificata dal consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, e una più tiepida sulla quale si trova innanzitutto il presidente. Ieri, per esempio, Donald Trump prima di scrivere qualcosa sulla vicenda di Baghdad ha fatto passare un paio d’ore, tempo in cui s’è occupato di quelle che per lui sono questioni più stringenti del fare la guerra: ossia, la campagna elettorale verso la riconferma del prossimo anno.

CHE DICE TRUMP SULL’IRAN?

“Se l’Iran vuole combattere, quella sarà la fine ufficiale dell’Iran. Non minacciate mai più gli Stati Uniti!”, ha scritto Trump su Twitter mentre riceveva alla Casa Bianca Bolton per un briefing e su Fox News andava in onda una sua intervista registrata con il giornalista Steve Hilton la scorsa settimana in cui diceva di non voler fare la guerra all’Iran, ma di non poter accettare che Teheran sviluppasse armi nucleari (cosa in realtà congelata dall’accordo del 2015, che secondo tutte le prove prodotte l’Iran sta rispettando. Ndr), aggiungendo anche che non si aspettava che il ritorno della panoplia sanzionatoria americana avrebbe prodotto effetti così forti: “Il paese è devastato dal punto di vista dell’economia”, ha detto.

COSA STA SUCCEDENDO? 

La sensazione è questa: nel Medio Oriente c’è un’atmosfera tesissima che può facilmente scivolare in un conflitto devastante, anche perché ci sono alcuni attori minori – come i gruppi armati dall’Iran – che possono velocemente andare fuori controllo e compiere azioni i cui effetti sarebbero catastrofici. Ma, seppur senza arretramenti pubblici, sia Iran che Stati Uniti sembrano interessati a una de-escalation più che a un conflitto. Per esempio, sabato alcuni funzionari americani hanno detto al New York Times di avere informazioni di intelligence molto fresche secondo cui gli iraniani avrebbero scaricato da alcuni barchini (si chiamano “dhow”) in mano ai miliziani i missili precedentemente imbarcati. Erano quelli che avevano fatto alzare quel warning americano due settimane fa, quando invece a caricarle nei porti iraniani di Jask e Chabahar sarebbero stati i Guardiani, per poi mandarli poi in giro per il golfo dell’Oman.

PROVE DI DE-ESCALATION

Giovedì scorso, due cacciatorpedinieri – il McFaul e il Gonzalez, parte del dispiegamento d’emergenza deviato verso il quadrante dal Pentagono – hanno solcato quelle stesse acque, tagliando Hormuz senza problemi, ed è un segnale che l’intenzione di fondo è evitare incidenti. I funzionari americani difendono la posizione e dicono al Nyt che se l’Iran adesso indietreggia è proprio perché è stato scoperto e gli è stato messo davanti quel sistema di deterrenza che Washington ha rapidamente mosso verso il Medio Oriente (una portaerei con il suo gruppo da battaglia, altre unità navali tra cui alcune d’assalto anfibio, quattro B-52, batterie Patriot e diversi altri pezzi da superiorità aerea). Ma in quegli stessi giorni in cui il briefing informativo sullo scarico missilistico iraniano arrivava a porte chiuse alle Commissioni Intelligence e Forze armate del Senato, la Casa Bianca faceva uscire spifferate – mai smentite – su un battibecco tra Trump e il capo del Pentagono, Patrick Shanahan, col presidente che tuonava di non volere una guerra con l’Iran; e dal dipartimento di Stato si pubblicizzava un contatto telefonico tra il segretario Mike Pompeo e i canali diplomatici omaniti e svizzeri – mediatori per gli Usa con l’Iran.

FUORI I FALCHI

Le tensioni non sono di certo del tutto placate, e quel missile verso l’ambasciata Usa rischia di rinfocolarle, ma l’idea di fondo del presidente Trump pare essere gestire la situazione mostrando i muscoli ma senza usarli. Martedì i membri della Camera statunitense saranno informati sulle evoluzioni della situazione, in un incontro protetto condotto da tutti i leader del comparto sicurezza escluso uno: Bolton, tenuto fuori dal vertice. Il punto è anche che, come avevano predetto gli analisti, l’intensa campagna di pressione condotta dall’amministrazione Trump tramite la linea dei falchi ha fatto rinvigorire le posizioni iraniane più integraliste, quelle legate al mondo diffuso dei Guardiani e dei loro collegamenti regionali – ossia le milizie armate.


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