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È giunta l’ora che l’Italia a Bruxelles abbia un commissario economico

difesa europee elezioni

Non è la prima volta che Matteo Salvini si spende a favore di un commissario italiano, con portafoglio economico, in quel di Bruxelles. Lo aveva detto in una lontana intervista al direttore della Nazione, la scorsa estate. Ed a quel proponimento, come risulta evidente nel suo nuovo intervento sul Corriere della Sera di sabato scorso, è rimasto fedele.

Diretto, come al solito, il suo almanaccare: nel prossimo esecutivo di Bruxelles, aveva detto allora, dovrà sedere qualcuno che “si occupi di quattrini, industria, economia, pesca, commercio, agricoltura. Qualcuno che nella Commissione Ue difenda il diritto al lavoro di 60 milioni di italiani che in Europa stanno massacrando”.

Idee che non sono cambiate. “In Europa vado – ha ribadito al Corriere – e chiedo il consenso del popolo italiano per occuparmi di lavoro”. È necessario avere un commissario “al commercio internazionale, o alla concorrenza o all’industria o all’agricoltura. La tutela del made in Italy si fa con un commissario che si occupa di questo non di filosofia”. L’invito elettorale è evidente. Solo votando la Lega si può dare forza all’Italia e quindi metterla in condizione di puntare il dito verso la luna. Tanto più che gli ostacoli non mancano. Il debito pubblico preoccupa, ma siamo, comunque, “la seconda potenza industriale d’Europa”.

E poi, come ricordava Banca d’Italia, l’economia italiana è “caratterizzata da un’elevata resilienza, derivante da diversi fattori: il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è in attivo dal 2013, mentre la posizione netta verso l’estero è lievemente negativa e dovrebbe diventare creditoria nel corso del prossimo anno; la ricchezza delle famiglie è elevata e l’indebitamento del settore privato è tra i più bassi nell’area dell’euro; la lunga vita media residua dei titoli di Stato rallenta la trasmissione del rialzo dei rendimenti all’emissione al costo medio del debito”. Insomma: ci sono tutte le condizioni per osare di più, mettendo fine a quel complesso di inferiorità che, in tutti questi anni, ci ha trasformato in una vittima sacrificale.

Del resto, con Mario Draghi, lo si è visto cosa gli italiani sono in grado di fare. Senza la sua determinata presenza al vertice della Bce, chissà se l’euro, almeno così come lo conosciamo, esisterebbe ancora. Il problema non è la nazionalità di coloro che occupano una posizione di vertice, ma la capacità di interpretare quei tempi che corrono velocemente. E misurare sul loro passo accelerato le soluzioni più opportune. Mario Draghi non è certo l’unico ad avere questa capacità. Anche se sarà necessario individuare le giuste professionalità, evitando gli errori commessi in passato. Quando la scelta del Commissario italiano rispondeva più a logiche interne, che non ai profili indispensabili per svolgere un ruolo che non sia solo di routine, ma di difesa attiva degli interessi nazionali.

La selezione del candidato dovrà quindi essere oculata. Se non altro per superare quella corsa ad ostacoli che è rappresentata dalla procedura che porta alla relativa nomina. Le regole europee, da questo punto di vista, sono particolarmente complesse. I commissari vengono nominati dopo l’elezione del presidente della nuova commissione (indicato dal Consiglio europeo composto dai Capi di Stato e di governo e votato dal Parlamento europeo a maggioranza assoluta dei componenti). Il nuovo capo dell’esecutivo Ue sceglie i potenziali vicepresidenti e i commissari sulla base delle indicazioni degli Stati membri. Qui scatta il primo esame: l’elenco dei candidati deve essere approvato da tutti i Capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti nel Consiglio europeo. Poi la palla passa all’Europarlamento: ogni candidato dovrà superare la valutazione e il voto della commissione parlamentare competente per il “portafoglio” per il quale viene proposto. Una volta approvata la lista il Parlamento europeo in seduta plenaria dovrà approvare (o meno) la squadra nel suo complesso. E quindi si può partire.

L’Italia è, da tempo, portatrice di un handicap che va superato. Ha anche avuto portafogli pesanti, ma mai “gli affari economici”. Sempre appannaggio dei francesi o di qualche “nordico” di stretta osservanza tedesca. Una tradizione nata negli anni, con il primo presidente della Bce, e continuamente rinnovata. Allora la scelta cadde sul fedele Wim Duisenberg, soprannominato “quindici minuti” per la sua capacità di seguire le direttive della Bundesbank, quando presiedeva la Nederlandsche Bank, la banca centrale olandese. Sarebbe quindi il caso di rompere questo tabù. Tanto più che va bene il commercio, l’agricoltura e via dicendo. Ma il vero obiettivo dovrebbe essere quello della rinegoziazione del Fiscal compact, specie dopo il voto contrario del Parlamento europeo. Non tanto per giungere ad una sua illusoria soppressione, ma per evitare di applicare ricette errate, anche quando gli squilibri macroeconomici dei singoli Paesi legittimerebbero il contrario. Nella consapevolezza che, senza questa grande riforma, l’Italia non sarà in grado d’uscire dalla spirale deflazionistica in cui si è cacciata.


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