Mentre scoppiava la pace tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, dopo i mesi passati da separati in casa, la parola più gettonata, negli austeri templi della finanza internazionale, è stata “credibilità”. Declinata in negativo ed in positivo a seconda delle circostanze.
LA CREDIBILITÀ DELL’ITALIA
Per Moody’s “il debito pubblico dell’Italia “continuerà a salire nei prossimi anni” e l’obiettivo del governo di un deficit al 2,1% del Pil per quest’anno “manca di credibilità”. Le previsioni dell’Agenzia parlano di un 2,6% per quest’anno e di un 2,7%, per il prossimo. Per la verità, non è chiaro quali ne siano le basi. Se siano solo il riflesso del “tendenziale” o già incorporino elementi della possibile manovra: dalla sterilizzazione a debito delle clausole di salvaguardia dell’Iva e delle accise, alla flat tax. Ma poco importa. Quel che conta è il sentiment. Un preannuncio di quello che potrebbe essere il verdetto dei primi di settembre, quando l’Agenzia valuterà il merito di credito dell’Italia.
Su un piano completamente diverso, ma in qualche modo convergente, la risposta di Mario Draghi, di fronte alla domanda di un giornalista, che sollecitava un intervento deciso per la riduzione del debito italiano. Un risultato che, secondo il numero uno della Bce, può essere conseguito solo con un piano a medio termine che, tuttavia, deve essere “credibile”. Se così non fosse – aggiungiamo noi – i mercati giocherebbero d’anticipo. Come indicato dalla stessa Moody’s. Ed i costi dell’ipotetico aggiustamento – sempre che risulti possibile – diverrebbero debordanti.
I MINI-BOT
Altro tema che ha unito prospettive così diverse: quello dei mini-bot. L’idea di Claudio Borghi, presidente della Commissione bilancio della Camera dei deputati, nonché teorico (difficile dire se pentito) dell’Italexit. Dovranno servire, nelle sue intenzioni, per pagare i debiti della Pubblica amministrazione. Al momento questi strumenti di pagamento atipici non esistono in natura. La Camera si è limitata, seppur con pentimenti postumi ed imbarazzanti abiure, a votare all’unanimità una specifica mozione. Il rappresentante del governo, per evitare una bocciatura, è stato costretto a rimettersi all’Aula. Che poi l’ha approvata all’unanimità. Segno di uno stato di confusione mentale. Ma anche l’inveramento di un vecchio detto. Era stato Giovanni Giolitti, agli inizi del secolo scorso, a dire che un ordine del giorno – di cui la mozione parlamentare è semplice variante – è come un sigaro: non si nega a nessuno.
Comunque sia, le conseguenze di quel pronunciamento, almeno al momento, non avranno effetto. Inutili granelli di sabbia nel delicato meccanismo della fiducia. Moody’s non ha esitato a rievocare l’incubo di una possibile uscita dall’euro, di cui la quasi-moneta, vagheggiata da Borghi, sarebbe solo il primo passo. Insolitamente dura (ma c’è un limite a tutto), la presa di posizione di Mario Draghi. Se i mini-bot sono moneta, sono semplicemente “illegali”. Se sono uno strumento di debito, ne aumentano la dimensione. Quindi: pollice verso. C’è comunque un pericolo ancora più insidioso. Qualora venissero alla luce, l’unica conseguenza sarebbe quella descritta in tutti i manuali di economia. “La moneta cattiva che scaccia quella buona”. Il che, considerata la permeabilità dei mercati internazionali, comporterebbe fughe immediate di capitale verso approdi più sicuri: a partire dal dollaro.
PACE RITROVATA FRA I VICE PREMIER
Per fortuna questi momenti così concitati sono stati allietati dalla pace ritrovata tra i due vice presidenti del Consiglio. Baci e abbracci, dopo le liti dei mesi precedenti. Addirittura zuccheroso, il comunicato congiunto: “Il governo deve andare avanti”. Con l’Europa è necessario un “dialogo costruttivo”, in cui il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, avrà un ruolo centrale, come avvenuto nello scorso autunno. Ma questa volta Matteo Salvini, com’è giusto che sia, vuole essere della partita. Sullo sfondo è, infatti, l’esigenza di un cambio di passo, che archivi le politiche passate e la loro inconcludenza e delinei un possibile scenario alternativo. Sul quale, seppure a malincuore, sembra convergere almeno una parte dei 5 Stelle.
Che il nodo del contendere sia solo la flat tax – anzi “tassa piatta” come preferisce definirla il Capitano – forse è riduttivo. Quello slogan, per risultare credibile, ha bisogno di una robusta iniezione programmatica. Si tratta, infatti, di delineare uno scenario completamente diverso. Come del resto suggerito dallo stesso governatore della Banca d’Italia. Il che la dice lunga sui mutamenti prospettici intervenuti nella cultura economica italiana, a distanza di solo qualche anno. Era più o meno ieri quando Tommaso Padoa-Schioppa, esponente di primo piano di quello stesso ambiente, non esitava a dire che le “tasse erano bellissime”. L’operazione da fare, per risultare credibile, è complessa. Qualcosa che ricordi quanto avvenne in un lontano passato. Gli anni ’70 furono scanditi dalla nascita dell’Iva, che soppiantava la vecchia Ige. E dal materializzarsi dell’Irpef: il sostituto d’imposta. Che trovava la sua giustificazione nel carattere fordista dello sviluppo storico di quel periodo.
Uno scenario del tutto superato, ma che sopravvive solo nell’anacronistico impianto fiscale italiano. Sostituito dalle caratteristiche “liquide” della società contemporanea. Insistere su quel “modello” è come usare il cannone per uccidere le zanzare. Diabolici animaletti, invisibili ad occhio umano, come lo sono la maggior parte degli evasori, capaci di sfuggire ad un apparato repressivo tanto ridondante, quanto inutile. Occorre ritrovare una nuova sintonia tra i meccanismi dello sviluppo economico e l’obbligo costituzionale di partecipare al finanziamento dello Stato. Basta rileggersi i consuntivi di quegli anni. Ci volle il tempo necessario, ma alla fine la politica fiscale fu in grado di aderire meglio, seppur con mille difficoltà e contraddizioni, al sottostante dinamismo della società italiana.